L’indagine campionaria “Reddito e condizioni di vita” (EU SILC), condotta nel 2015 su 17.985 famiglie (42.987 individui), rileva numerosi indicatori delle condizioni economiche delle famiglie, insieme ai redditi netti familiari e alla condizione lavorativa per mese di calendario riferiti al 2014. Sulla base di tali informazioni, l’Unione europea calcola gli indicatori ufficiali per la definizione e il monitoraggio degli obiettivi di politica economico-sociale perseguiti dalla Strategia Europa 2020, che si propone di ridurre di 20 milioni gli individui esposti al rischio di povertà o esclusione sociale a livello Ue entro il 2020. Tradotto per il nostro Paese l’obiettivo è di far uscire 2,2 milioni di persone da tale condizione rispetto al valore registrato nel 2008 (ultimo dato disponibile quando l’impianto strategico Europa 2020 fu impostato). In Italia, nel 2008, risultavano a rischio di povertà o esclusione sociale 15.082.000 individui (25,5% della popolazione residente) da ridurre quindi a 12.882.000 unità entro il 2020. Nel 2015 gli obiettivi prefissati sono ancora lontani: la popolazione esposta a rischio di povertà o esclusione sociale è infatti superiore di 4.587.000 unità rispetto al target previsto.
Più di un quarto della popolazione è a rischio di povertà o esclusione sociale.
Nel 2015 il 19,9% delle persone residenti in Italia risulta a rischio di povertà, vive cioè in famiglie che nel 2014 avevano un reddito familiare equivalente inferiore al 60% del reddito mediano; l’11,5% si trova in condizioni di grave deprivazione materiale, mostra cioè almeno quattro dei nove segnali di deprivazione individuati; l’11,7% vive in famiglie a bassa intensità di lavoro, ossia in famiglie con componenti tra i 18 e i 59 anni che nel 2014 hanno lavorato meno di un quinto del tempo.
La popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, pari al 28,7% (17.469.000 individui) include tutti coloro che si trovano in almeno una delle suddette tre condizioni. Tenuto conto dell’errore campionario associato alla stima, tale quota risulta stabile rispetto al 2014 (28,3%). La quota di persone in famiglie a bassa intensità lavorativa scende all’11,7% nel 2015 (da 12,1% del 2014) ed è associata all’aumento della quota di chi risulta a rischio di povertà (da 19,4% a 19,9%), mentre la grave deprivazione materiale si mantiene stabile.
A livello europeo, nel 2015 l’indicatore sintetico di rischio di povertà o esclusione sociale diminuisce da 24,4% a 23,7% ma sale rispetto al 2014 per Lituania, Cipro, Bulgaria, Paesi Bassi.
Il valore italiano si mantiene inferiore a quelli di Bulgaria (41,3%), Romania (37,3%), Grecia (35,7%), Lettonia (30,9%), Lituania (29,3%), Croazia (29,1%) e Cipro (28,9%), ma è molto superiore a quelli registrati in Francia (17,7%), Germania (20,0%) e Gran Bretagna (23,5%), e sostanzialmente allineato a quello della Spagna (28,6%). I Paesi con il livello più basso dell’indicatore sono Repubblica ceca (14,0%), Svezia (16,0%), Finlandia e Paesi Bassi (entrambi 16,8%).
In Italia, a fronte di una sostanziale stabilità – tra il 2014 e il 2015 – della quota di popolazione a rischio di povertà o esclusione sociale, si rilevano segnali di peggioramento tra chi vive in famiglie con almeno cinque componenti (la stima passa dal 40,2% al 43,7%) e, in particolare, tra chi vive in coppia con almeno tre figli (da 39,4% a 48,3%, pari a circa 2.200.000 individui). Tale peggioramento è associato ad un incremento sia del rischio di povertà (+7,1 punti percentuali) sia della grave deprivazione materiale (+3 punti percentuali). Per gli stessi individui si osserva, invece, un miglioramento per la bassa intensità lavorativa (che passa dal 14,6% al 12,4% tra gli individui delle famiglie numerose e dal 14,1% all’11,4% tra le coppie con almeno tre figli).
Il peggioramento del rischio di povertà o esclusione sociale interessa soprattutto i residenti del Centro (da 22,1% a 24%) per i quali cresce la deprivazione materiale e, in misura minore, le persone che risiedono al Sud e nelle Isole (dal 45,6% al 46,4%), dove tale rischio rimane in generale più diffuso e prossimo a coinvolgere il 50% delle persone residenti.
Si aggrava il rischio di povertà o esclusione sociale anche per coloro che vivono prevalentemente di reddito da lavoro, in concomitanza all’incremento della bassa intensità lavorativa (+0,6 punti percentuali per il reddito da lavoro dipendente e +0,7 punti percentuali per il reddito da lavoro autonomo). Al contrario, tra coloro il cui reddito principale familiare è costituito da pensioni o trasferimenti pubblici l’esposizione al rischio di povertà o esclusione sociale rimane stabile, pur in presenza di una diminuzione dell’indicatore di bassa intensità lavorativa (da 50,7% a 47,1%).
La grave deprivazione materiale si mantiene sostanzialmente stabile fra il 2014 e il 2015 (rispettivamente 11,6% e 11,5%) ma gli andamenti sono differenziati per i singoli indicatori che compongono quello sintetico: diminuisce la quota di individui in famiglie che dichiarano di non poter permettersi una settimana di vacanza lontano da casa (da 49,5% a 47,3%), di non riuscire a fare un pasto adeguato (cioè con proteine della carne o pesce o equivalente vegetariano) almeno ogni due giorni (da 12,6% a 11,8%) e di non poter riscaldare adeguatamente l’abitazione (da 18% a 17%).
Aumenta, invece, la quota di individui in famiglie che dichiarano di non poter sostenere una spesa imprevista di 800 euro (da 38,8% a 39,9%) e di avere avuto arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti (da 14,3% a 14,9%). Peggioramenti più marcati si osservano in particolare per gli individui in coppie con almeno tre figli: la quota di chi dichiara di non poter sostenere una spesa imprevista di 800 euro passa dal 48,1% al 52,8% e quella di chi ha avuto arretrati per mutuo, affitto, bollette o altri debiti dal 21,7% al 30,4%, contribuendo all’aumento di 3 punti percentuali dell’indicatore sintetico di grave deprivazione materiale.
Forte rischio di povertà o esclusione sociale per famiglie numerose o con stranieri.
Nel 2015 si stima che le persone a maggior rischio di povertà o esclusione sociale vivano in famiglie di coppie con tre o più figli (48,3%), monogenitori (40,1%) e in famiglie con cinque o più componenti (43,7%). Ciò è dovuto in particolare all’elevata incidenza del rischio di povertà e della grave deprivazione che per le famiglie numerose è pari rispettivamente a 33,8% e 19,2%.
Elevati livelli di rischio di povertà o esclusione sociale si osservano anche tra coloro che vivono in famiglie monoreddito (45,4%) – per i quali i valori dei tre indicatori sono più che doppi rispetto a quelli osservati tra i componenti delle famiglie con due o più percettori di reddito – o in famiglie con fonte principale di reddito non proveniente da attività lavorative (32,9% se la fonte principale è una pensione o un altro trasferimento pubblico, 61% se si tratta di altra fonte).
Tra coloro che vivono in famiglie con almeno un cittadino non italiano il rischio di povertà o esclusione sociale è quasi il doppio (49,5%) rispetto a quello di chi vive in famiglie di soli italiani (26,3%). Il divario è analogo sia per il rischio di povertà (36,3% dove c’è almeno un componente non italiano contro 18,1% per le famiglie di soli italiani) sia per la grave deprivazione materiale (22,9% contro 10,2%). Viceversa, la bassa intensità lavorativa risulta meno diffusa tra gli individui in famiglie con almeno uno straniero (7,7% a fronte del 12,4% per le famiglie di soli italiani).
Si stima che quasi la metà dei residenti nel Sud e nelle Isole (46,4%) sia a rischio di povertà o esclusione sociale, contro il 24% del Centro e il 17,4% del Nord. I livelli sono superiori alla media nazionale in tutte le regioni del Mezzogiorno, con valori più elevati in Sicilia (55,4%), Puglia (47,8%) e Campania (46,1%). Viceversa, i valori più contenuti si riscontrano nella provincia autonoma di Bolzano (13,7%), in Friuli-Venezia Giulia (14,5%) ed Emilia-Romagna (15,4%).
Peggioramenti significativi si rilevano in Puglia (+7,5 punti percentuali), Umbria (+6,6 punti percentuali), nella provincia autonoma di Bolzano (+4 punti percentuali), nelle Marche (+3,4 punti percentuali) e nel Lazio (+2,3 punti percentuali), mentre l’indicatore migliora per Campania e Molise.
In Umbria quindi le condizioni sono peggiorate, con il rischio povertà che passa dal 21,9% del 2014 al 28,5% del 2015. Peggiora anche la bassa intensità lavorativa (dal 10,7% all’11,7%).
Quattro individui su dieci sono a rischio di povertà in Sicilia, tre su dieci in Campania, Calabria, Puglia e Basilicata. Livelli di grave deprivazione materiale più che doppi rispetto alla media italiana si registrano in Sicilia e Puglia dove più di un quarto degli individui si trova in tale condizione. La Sicilia (28,3%) è anche la regione con la massima diffusione di bassa intensità lavorativa, seguita da Campania (19,4%) e Sardegna (19,1%).
Una delle misure principali utilizzate nel contesto europeo per valutare la disuguaglianza tra i redditi degli individui è l’indice di Gini. In Italia esso assume un valore pari a 0,324, sopra la media europea3 di 0,310, ma stabile rispetto all’anno precedente. Nella graduatoria dei Paesi dell’Ue l’Italia occupa la sedicesima posizione assieme al Regno Unito. Distribuzioni del reddito più diseguali rispetto all’Italia si rilevano in altri Paesi dell’area mediterranea quali Cipro (0,336), Portogallo (0,340), Grecia (0,342) e Spagna (0,346). Il campo di variazione dell’indice è molto ampio: dai valori più alti di Lituania (0,379) e Romania (0,374) dove la distribuzione dei redditi è fortemente diseguale, a quelli più bassi di Slovenia (0,236) e Slovacchia (0,237), che invece hanno distribuzioni del reddito più eque (Figura 2).
In Italia l’indice di Gini è più elevato nel Sud e nelle Isole (0,334) rispetto al Centro (0,311) e al Nord (0,293).
Nelle analisi che seguono la definizione di reddito è affinata rispetto a quella usata precedentemente per il calcolo degli indicatori di popolazione a rischio di povertà e di concentrazione di Gini armonizzati a livello europeo. A differenza del concetto di reddito utilizzato in ambito europeo, che esclude alcune componenti rilevanti derivanti da taluni beni e servizi in natura, nella definizione di “reddito familiare” sono compresi il valore dei buoni pasto, dei fringe benefits non-monetari (ad eccezione dell’auto aziendale già considerata in precedenza) e degli autoconsumi (beni prodotti e consumati dalla famiglia).
Per accertare l’entità della disuguaglianza nella distribuzione dei redditi si fa inoltre ricorso a una misura del reddito che tiene conto della dimensione e composizione delle famiglie e delle conseguenti economie di scala che si realizzano a seguito della coabitazione di più persone nella stessa famiglia. La misura utilizzata è il “reddito equivalente”, che rappresenta il reddito di cui un componente di una famiglia dovrebbe disporre per avere lo stesso livello di benessere economico nel caso in cui vivesse da solo. Esso si ottiene rapportando il reddito familiare alla dimensione della famiglia in termini di adulti equivalenti (scala di equivalenza) e consente di confrontare i livelli di reddito di famiglie di dimensione diversa.
Dopo il calo subito dal 2009 al 2013 stabile il reddito delle famiglie nel 2014.
Nel 2014 si stima che le famiglie residenti in Italia abbiano percepito un reddito disponibile netto pari in media a 29.472 euro, circa 2.456 euro al mese. Tuttavia, poiché la distribuzione dei redditi è asimmetrica, la maggioranza delle famiglie ha conseguito un reddito inferiore all’importo medio. Se si calcola il valore mediano, ovvero il livello di reddito che separa il numero di famiglie in due metà uguali, si osserva che il 50% delle famiglie residenti in Italia ha percepito un reddito non superiore a 24.190 euro (2.016 euro al mese), valore sostanzialmente stabile rispetto al 2013 (quando metà delle famiglie ha percepito un reddito non superiore a 24.310 euro).
In egual modo nel 2014 il reddito netto familiare medio è rimasto invariato rispetto all’anno precedente in termini nominali; considerando la dinamica inflazionistica (che nel 2014 è stata pari allo 0,2%) e l’errore campionario, il reddito medio risulta stabile anche in termini reali.
Questa stabilità del reddito familiare in termini reali ha interrotto una caduta in atto dal 2009 che ha comportato una riduzione complessiva di circa il 12% del potere d’acquisto delle famiglie, sia in media che in mediana. La contrazione del reddito familiare equivalente è risultata più contenuta: la riduzione del numero medio di componenti per famiglia ha determinato una contrazione del reddito equivalente per adulto in termini reali di circa il 10% in media e 9% in mediana.
Poiché in Italia la proprietà dell’abitazione principale è ampiamente diffusa (meno di un quinto delle famiglie vive in affitto) è opportuno considerare nel calcolo del reddito disponibile anche la posta dell’affitto figurativo delle case di proprietà, in usufrutto o uso gratuito. L’inclusione di tale posta consente di confrontare correttamente le condizioni economiche delle famiglie di inquilini e proprietari.
Nel 2014 il reddito familiare inclusivo degli affitti figurativi è stimato in media pari a 35.017 euro, in leggero aumento rispetto all’anno precedente a seguito della crescita degli affitti figurativi. Nel periodo 2009-2014 gli affitti figurativi in termini reali sono diminuiti di poco più del 4%, di conseguenza, la riduzione complessiva del reddito inclusivo degli affitti figurativi è stata lievemente meno intensa e pari complessivamente all’11% in media; il reddito equivalente inclusivo di tale componente è invece diminuito del 9% in media e del 7% in mediana.
L’andamento delle principali tipologie di reddito ha evidenziato una forte contrazione per i redditi da lavoro autonomo, che in media hanno subito una diminuzione di circa il 28% in termini reali a partire dal 2009, a fronte di una riduzione di circa l’8% e il 7% rispettivamente dei redditi da lavoro dipendente e dei redditi da pensioni e trasferimenti pubblici, mentre i redditi da capitale sono diminuiti di circa il 4%.
Nel 2014, per la prima volta dopo sette anni consecutivi di riduzione in termini reali, i redditi familiari da lavoro dipendente salgono di circa il 2% rispetto al 2013, grazie all’aumento del numero di percettori, ma a fronte di redditi medi per percettore rimasti invariati. I redditi familiari da lavoro autonomo subiscono, invece, una contrazione ulteriore di quasi il 5%, a causa del calo sia del numero di percettori che del reddito medio per percettore in termini reali, mentre i redditi da pensioni e trasferimenti pubblici e quelli da capitale risultano invariati.
Dal 2009 i redditi familiari medi si sono ridotti di più al Centro (-15%) e nel Mezzogiorno (-14%) rispetto al Nord (-9%). A risentirne sono state soprattutto le famiglie con principale percettore tra i 45 e i 54 anni (-19%) e con meno di 35 anni (-15%), mentre per le famiglie con principale percettore anziano i redditi medi sono rimasti invariati. Infine, le famiglie numerose (con almeno cinque componenti) e, in particolare, quelle con tre o più figli, hanno accusato riduzioni più intense di reddito in termini reali (rispettivamente -16% e -19%).
L’Umbria, tra le regioni del centro risulta essere quella a più basso reddito, che si attesta al di sotto dei 30 mila euro.
Nel 2014 le famiglie settentrionali hanno i redditi mediani più elevati; quelle che vivono al Centro e nel Mezzogiorno mostrano livelli pari, rispettivamente al 92% e al 73% di quello delle famiglie residenti al Nord.
Il reddito mediano cresce all’aumentare del numero di percettori e dipende dalla tipologia della fonte principale: ammonta a 29.406 euro tra le famiglie con fonte principale da lavoro dipendente, scende a 28.556 euro per quelle con reddito da lavoro autonomo e a 19.487 euro per quelle che vivono prevalentemente di pensione o trasferimenti pubblici.
Gli anziani soli hanno un reddito mediano di 14.382 euro (poco più di mille euro mensili), circa 3 mila euro in meno di quello dei single in età attiva (17.100 euro); anche le coppie con persona di riferimento anziana percepiscono un reddito mediano più basso se confrontato a quello di coppie più giovani (23.927 contro 29.222 euro). Il reddito mediano delle coppie con tre o più figli è pari a 30.806 euro, più basso di quello osservato sia per le coppie con un solo figlio (35.525 euro), sia per quelle con due (35.525 euro). Tale risultato si associa alla maggiore presenza di famiglie con almeno tre figli nelle regioni meridionali, dove i redditi sono mediamente più bassi.
Le famiglie monogenitore, composte in media da 2,48 componenti, presentano valori di reddito inferiori di più di 11 mila euro a quelli delle coppie con figli: nel 2014 il 50% di queste famiglie ha a disposizione meno di 23.870 euro. Più elevato è infine il reddito delle famiglie di altra tipologia (31.053 euro), composte in media da 3,10 componenti.
Le famiglie con almeno un componente non italiano hanno un reddito mediano inferiore di circa 7 mila euro rispetto a quello di famiglie di soli italiani. Le differenze relative si accentuano passando dalla ripartizione Nord a quella Sud e Isole, dove il reddito mediano delle famiglie con stranieri è circa la metà di quello delle famiglie di soli italiani.
Il reddito delle famiglie varia a seconda del numero e delle caratteristiche socio-demografiche dei componenti (sesso, età, titolo di studio, condizione professionale), in particolare del principale percettore di reddito.
Il reddito mediano aumenta con l’età del principale percettore e tocca il valore massimo tra i 45 e i 54 anni (29.601 euro) per ridursi successivamente raggiungendo il valore più basso dall’età pensionabile in poi (19.161 euro). Il reddito familiare cresce anche all’aumentare del livello di istruzione del principale percettore: la metà delle famiglie di laureati percepisce oltre 36 mila euro, cifra più che doppia rispetto a quella delle famiglie dove il principale percettore ha un titolo di studio basso o non ne possiede alcuno (16.198 euro).
Le famiglie con principale percettore donna (in media composte da 1,90 componenti) sono costituite in maggioranza da anziane sole o da coppie con figli e hanno un reddito mediano inferiore di circa un terzo rispetto a quello delle famiglie con a capo un uomo, composte in media da 2,64 componenti (18.612 euro contro 27.536 euro).
L’inclusione degli affitti figurativi non altera la struttura delle relazioni precedentemente descritte fra il reddito e le caratteristiche della famiglia (ripartizione geografica, numero di percettori, tipologia familiare), ma determina aumenti dei redditi familiari più consistenti sia nel Centro-Nord rispetto al Mezzogiorno (ampliando quindi la distanza territoriale) sia per le famiglie composte da anziani (riducendo la loro distanza reddituale da quelle più giovani), a seguito del diverso valore delle proprietà immobiliari e della diversa diffusione degli affitti nella popolazione.
La stima del valore del reddito comprensivo dell’affitto figurativo è più elevata tra le famiglie residenti nella provincia autonoma di Bolzano, in Lombardia ed Emilia-Romagna e più contenuta in Basilicata, Campania, Calabria e Sicilia.
Il 20% della popolazione più povero possiede l’8% del reddito totale.
Per misurare la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, è possibile ordinare le famiglie dal reddito equivalente più basso a quello più alto e classificarle in cinque gruppi (quinti). Il primo quinto comprende il 20% delle famiglie con i redditi equivalenti più bassi, il secondo quelle con redditi medio-bassi e così via fino all’ultimo quinto, che comprende il 20% di famiglie con i redditi più alti.
La distribuzione del reddito totale nei quinti fornisce una prima misura sintetica della disuguaglianza. In una situazione ipotetica di perfetta eguaglianza, ogni quinto di famiglie avrebbe una quota di reddito pari al 20% del totale.
In realtà le famiglie del primo quinto, con i redditi equivalenti più bassi, percepiscono il 6,7% del reddito totale, quelle del quinto più ricco il 39,3%; in altri termini, il reddito delle famiglie più benestanti è ben 5,9 volte quello delle famiglie appartenenti al primo quinto. Se si include l’affitto figurativo la disuguaglianza diminuisce e le quote passano rispettivamente a 7,7% e 37,3%, cioè le famiglie più ricche percepiscono un reddito pari a 4,9 volte quello delle famiglie del primo quinto.
Nel periodo 2009-2014, la contrazione di reddito in termini reali è stata molto più forte per le famiglie del primo quinto della distribuzione, il cui reddito equivalente medio, inclusivo degli affitti figurativi, è diminuito del 13%, a fronte di una riduzione media del 9,0%. Ne è seguito un aumento della disuguaglianza, con il reddito delle famiglie più ricche passato da 4,6 a 4,9 volte il reddito delle famiglie più povere.
Differenze significative si registrano anche rispetto alla ripartizione geografica. Appartiene al primo quinto il 36,8% delle famiglie residenti nella ripartizione Sud e Isole rispetto al 14,8% di quelle che vivono nel Centro e all’11,1% delle famiglie del Nord. All’opposto si posiziona nel quinto più ricco una famiglia su quattro del Nord e del Centro rispetto al 7,8% di quelle che vivono nel Mezzogiorno.
Le famiglie più numerose, di almeno cinque persone, risultano più concentrate nel quinto più basso (43,4%) e meno presenti nel quinto più ricco (8%). Questo aspetto si associa alla maggiore presenza nel segmento inferiore della distribuzione dei redditi di famiglie con figli, soprattutto se minori; le coppie con figli, infatti, nel 24,9% dei casi appartengono al quinto inferiore della distribuzione (contro il 12,1% delle coppie senza figli) e nel 16,9% si collocano nel quinto più elevato (contro il 25,7% delle coppie senza figli). La condizione più grave, ancora una volta, si rileva se i figli sono tre o più (il 47,4% di queste famiglie appartiene al quinto di reddito più basso), soprattutto se minori (54,7%).
All’aumentare dei percettori di reddito presenti in famiglia è più frequente la collocazione della famiglia nei quinti di reddito più elevati: le famiglie con tre o più percettori appartengono al quinto più ricco nel 27,1% dei casi. Appartiene al quinto più ricco anche il 27,2% delle famiglie il cui reddito principale proviene da lavoro autonomo, il 21,6% delle famiglie con reddito principale da lavoro dipendente e il 17,7% delle famiglie che vivono soprattutto di pensioni e altri trasferimenti pubblici non pensionistici.
Le famiglie con almeno un componente non italiano si collocano nel primo quinto nel 46,3% dei casi e nell’ultimo quinto solo nel 5,3%. Fra le caratteristiche del principale percettore di reddito, l’elevato livello di istruzione risulta sistematicamente associato a una collocazione della famiglia nella parte alta della distribuzione dei redditi e, quindi, a migliori condizioni economiche. Infatti, appartengono al quinto più ricco della distribuzione quattro famiglie su dieci (42,1%) in cui il percettore principale è laureato.