Un gruppo di carabinieri, a piedi, rigorosamente in divisa, armati fino ai denti, lasciano Marsciano, dove è la loro stazione, e si incamminano a passo veloce. E’ il 5 aprile 1868, domenica delle Palme, e devono trovarsi alle 8 nella frazione di Sant’Elena. E’ infatti stato loro riferito che alcuni renitenti alla leva si sarebbero recati a sentire la Messa e vogliono essere puntuali all’appuntamento, quando la gente uscirà dopo la funzione religiosa.
E mentre stanno sulla porta della chiesa a osservare le persone che ne escono, il carabiniere Francesco Garganese osserva un individuo che, dopo aver lanciato un’occhiata fuori, si reca verso la sacrestia con fare sospetto. Seguendolo lo vede salire le scale del campanile e fare un salto sul tetto adiacente. Il carabiniere sale anch’egli le scale e tiene dietro al giovane sconosciuto.
Inseguito da Garganese il giovane gli lancia dietro delle tegole. Raggiunto e afferrato si ribella con violenza. Inizia una collutazione, il giovane getta steso sul tetto il carabiniere, gli si butta sopra, ha la meglio e fugge precipitandosi dai tetti sulla strada. Garganese si rialza, con il volto sanguinante. Il collega Barbiero, salito anch’egli sul tetto, lo soccorre, e grida: “E’ fuggito, è fuggito!”, dando l’allarme agli altri carabinieri che lo inseguono. Ma il giovane sconosciuto, forte di un fisico agile e dell’essere vestito semplicemente, guadagna terreno e svanisce nel nulla, lasciando i carabinieri con le mani vuote e Francesco Garganese con contusioni, ferite e senza la narice destra: lo sconosciuto l’ha staccata di netto con un morso.
Intanto lo spazio davanti alla chiesa e l’intero paese si sono fatti deserti e silenziosi. Tutti si sono chiusi nelle loro case: non vogliono essere i testimoni scomodi di un episodio che vede i carabinieri contrapposti a uno di loro. Se poi, da dietro le finestre, abbiano visto tutto, in quella domenica e nei giorni successivi, nessuno saprebbe dirlo.
Solo in due si fanno avanti e solo per dire il nome del giovane. Salvatore Paradisi e Francesco Dottori ammettono: è Nazareno Mommi. Il giovane, nato a San Biagio della Valle, è uno dei contadini, nella tenuta di Sant’Elena, di Vincenzo Sereni. Sembra svanito nel nulla, e quando nel marzo 1969, in vista del processo, i carabinieri vanno a cercarlo a casa per l’ennesima volta, il padre Orazio dichiara che il figlio è da tempo rifugiato a Carbognano, un paese nel viterbese a ridosso dei monti Cimini, in quello che ancora è lo Stato Pontificio, dove la legge del giovane Regno d’Italia non può raggiungerlo.
I carabinieri – il brigadiere Luigi Ercolani, Filippo Carfora, Pietro Cantu – a quanto pare non sono più gli stessi del rocambolesco episodio che aveva portato al ferimento di Garganese, non si limitano a credere ad Orazio Mommi, ma indagano e scoprono che Nazareno è proprio a Carbognano, “come risulta dalle informazioni di persone probe e degne di fede”, scrivono.
Senza l’accusato, senza altri testimoni che i carabinieri, il processo si conclude con una condanna in contumacia per ferimento volontario con permanente deformità della faccia contro il reale carabiniere Francesco Garganese “mentre procedeva all’arresto del Mommi renitente alla leva”, e di ribellione agli agenti della pubblica forza (cioè i reali carabinieri Giuseppe Ripa brigadiere, Francesco Barbiero, Sante Coppi e Francesco Garganese). Nazareno Mommi viene condannato a 5 anni per ferite e a 6 mesi per ribellione. In mancanza dell’imputato, cui notificarla, la sentenza viene affissa alla porta della casa paterna del Mommi in vocabolo Palazzone. E’ l’agosto 1869 e Santina Polimanti, detta Santa, la madre del condannato, guarda il foglio svolazzare al vento.
Non è una persona di malaffare, Nazareno Mommi: è soltanto uno dei tanti contadini analfabeti (illetterati, come si diceva un tempo) e nullatenenti che al Risorgimento, e alla nascita dello Stato unitario, restarono estranei, per molti e complessi motivi: le condizioni di grande povertà, il ruolo della chiesa, conservatore, che sul mondo contadino aveva grande peso, la tradizionale diffidenza dei contadini, il senso di sbalordimento di fronte al nuovo. In tanti, anche in Umbria, come il Mommi, scelsero la via della renitenza alla leva.
Ma nel settembre 1870 lo Stato Pontificio vede la sua fine definitiva, il rifugio nel viterbese ora non è più tale, anche Carbognano è entrata nel Regno d’Italia. Nazareno Mommi si costituisce l’11 novembre 1870, il 19 viene interrogato. E qui c’è un colpo di scena: “Garganese mi sparò con un revolver anche se non rimasi offeso dai colpi, ma un altro carabiniere mi tirò colpi di fucile al cappello e quando Garganese riuscì ad afferrarmi mi colpì più volte alla testa con il revolver che si ruppe. Temetti che mi volesse uccidere, anche i carabinieri mi morsicarono alla mano. Mi feci curare da una vecchia di nome Luisa Alberti, che abita a San Biagio. Stetti ammalato circa un mese, dopodichè mi portai nello Stato Pontificio, da dove sono tornato in settembre. Il carabiniere si sarà fatto male al naso passando per la torre, che è stretta – tenta di giustificarsi. A casa tengo ancora il cappello bucato e insanguinato”.
Nomina quindi suo difensore Alessandro Bianchi, famoso avvocato del foro perugino; il 14 dicembre 1870 viene processato e assolto dalla giuria. Ora ci sono una serie di testimoni a suo favore: Geremia Alberti, possidente di San Biagio testimonia di aver visto sua zia curarlo. Vincenzo Capaccioni, Domenico Papa e Giovanni Bartocci depongono che i carabinieri gli spararono.
Una storia a lieto fine, che invece che chiarire infittisce il mistero: come mai i testimoni a favore saltano fuori solo ora? Come mai nessuno ha parlato prima di spari? Soprattutto, come può un contadino “nullatenente e illetterato” permettersi uno dei migliori avvocati d’Italia? Forse ha l’aiuto del “padrone”, Vincenzo Sereni, uomo illuminato e dedito alla filantropia? Oppure dietro la sua assoluzione ci sono giochi politici che non siamo più in grado di decifrare?
- Rita Boini (boini@email.it)
- 29 Ottobre 2007
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