Il culto dei morti è, storicamente, una delle pratiche che fa da collante per i legami tra gli uomini. La memoria delle generazioni passate è uno degli strumenti attraverso i quali gli individui si riconoscono e si identificano.
Riconoscere il sistema di valori che i “maggiori”, gli antenati hanno lasciato in eredità è uno dei presupposti per sentirsi parte di una comunità. Tutte le più importanti istituzioni umane si fondano, seppure in modi diversi, sul riconoscimento dei propri morti: la famiglia, le Chiese, gli Stati.
Il culto dei morti è un legame politico prima ancora che religioso, e la “corrispondenza di amorosi sensi” con i trapassati del proprio gruppo umano è un sentimento che intreccia inestricabilmente pubblico e privato. Anche il ricordo di una morte vissuto nel modo più dolorosamente intimo genera un legame di tipo politico (si intenda la parola nel suo senso più ampio, e nobile) nel momento in cui viene condiviso e reso pubblico.
Non per caso la pratica dei manifesti funebri, delle comunicazioni di morte, è una delle più antiche e culturalmente trasversali che l’umanità conosca. Non a caso la morte di sovrani, capi di stato e papi è un momento in cui la comunità interessata esibisce nella manifestazione del lutto collettivo la propria compattezza, la propria unità, il proprio riconoscersi e ritrovarsi nel comune dolore e nella comune volontà di non dissolversi, di andare avanti.
“Il re è morto, viva il re”, si è annunciato per secoli dopo la morte di un sovrano, per evitare che le folle di sudditi si smarrissero nell’orrore del vuoto lasciato da un’autorità che si estingue.
La morte, a livelli diversi e con intensità diversa a seconda dei casi, si pubblicizza a scopo politico.
In questi giorni abbiamo assistito a violente e in alcuni casi terroristiche pubblicizzazioni della morte. E’ successo con Giovanna Reggiani, e gli effetti non si sono fatti attendere, prima nel Palazzo, che ci ha offerto come ormai di consueto uno spettacolo indecente, poi per strada, con esplosioni di panico collettivo, paura e quindi, inevitabilmente, violenza, la solita violenza che si genera dalla violenza, e che si illude di poter lavare il sangue col sangue.
E’ successo anche, mi si perdoni l’accostamento irrispettoso, a Todi, dove una forza politica ha tentato una riabilitazione dei “propri” morti (secondo le parole degli stessi protagonisti), approfittando della commemorazione che lo Stato fa dei morti il cui ricordo dovrebbe essere condiviso da tutti gli italiani, in quello spirito di evocazione di un sentimento comunitario che si è descritto prima.
A questo punto occorre sgombrare il campo da un equivoco retorico generato dalla malafede: una commemorazione non può mai essere neutra. Proprio per il suo carattere politico, la commemorazione pubblica non è mai semplicemente commemorazione di un essere umano che ha perso la vita. In quest’ottica, ogni essere umano meriterebbe una commemorazione pubblica, perché nessuna vita vale più di un’altra di fronte alla morte.
Fiamma Tricolore evoca quelli che definisce i “propri” morti non solo perché sono ragazzi che hanno perso la vita, ma perché sono ragazzi che hanno perso la vita dopo aver fatto un certo tipo di scelta ideologica, che sono morti in una determinata contingenza storico-politica. In questo senso, sono proprio loro, gli esponenti di Fiamma, ad affermare, coi fatti se non con le parole, che i morti non sono tutti uguali. Sostenere il contrario, del resto, è operazione bassamente retorica. Dal punto di vista storico e politico è evidente che i morti non sono tutti uguali. E, per quanto possa apparire cinico, distinguere tra i morti è il dovere di chi si occupa di storia e di politica. E, soprattutto, è il dovere di chi fa parte delle istituzioni che in quella storia affondano le proprie radici.
In privato Epifani e i suoi camerati possono ricordare chi vogliono. Ma la commemorazione pubblica e pubblicizzata ha sempre un significato politico. I morti, soprattutto se tirati insolentemente per la giacca (o per la camicia, in questo caso) parlano, sono costretti a parlare, e a parlare ai vivi, a rivolgersi al presente.
Parlano al presente i soldati della prima guerra mondiale salutati da Napolitano, un’intera generazione di giovaniscomparsa senza quasi nemmeno sapere perché. Parlano al presente i partigiani, morti invece sapendo bene perché. E parlano al presente, se chiamati in causa, i morti di Salò, anche se in tutta franchezza preferiremmo che fossero lasciati al loro silenzio, alla loro pace eterna ottenuta dopo aver combattuto una tanto sporca guerra, e per giunta dalla parta sbagliata.
Perché bisogna avere il coraggio di dirlo, e bisogna poterlo dire senza essere accusati di parzialità (non ha nessun senso in questo caso parlare di imparzialità): quella era la parte sbagliata. Lo era non perché il responso è stato scritto dai vincitori, ma perché è stata la Storia a dare il suo responso, e a scriverlo con caratteri di sangue in modo che non ce ne dimenticassimo. Quella era la parte sbagliata, e così la pensa chi crede nella Costituzione Italiana, forse il più bel testo di cultura politica d’Europa, e non solo: forse il più bel testo di Storia del Novecento.
Così farebbe bene a pensarla chi, attraverso libere elezioni, si è visto affidare il compito non di “rappresentare” le istituzioni, come si dice in un pessimo gergo, ma di essere le istituzioni, di tradurre in attività quanto è scritto nella Costituzione, o meglio, di tradurlo in VITA, la propria e quella degli altri.
La contraddizione tra il ruolo che Epifani e Fiamma ricoprono e la commemorazione dei morti di Salò è insanabile. In momenti come questo il trucco democratico, che certe forze politiche si sono passate in fretta e furia sul volto nero, rischia di colare, e di rivelarsi per quello che è: una maschera, un travestimento.
L’Italia è un Paese in cui ci sono attori politici che gestiscono il potere grazie alle istituzioni democratiche mentre in segreto continuano a pensare che sarebbe tutto più semplice se non ci fosse la democrazia. E questo non vale solo per Fiamma Tricolore, come ci insegna una storia d’Italia recente e sconosciuta.
I morti sono tutti uguali nel freddo della terra in cui riposano, e nei cuori delle loro madri, nei quali tornano a vivere. Tra i vivi, e soprattutto sulle bacheche dai partiti, i morti hanno significati profondamente diversi, perché i vivi sono costretti a ricordare, e a giudicare, quello che quei morti hanno fatto quand’erano in vita. Per affermare la diversità di significato storico e politico di tante morti, e di tante vite, stasera dovremmo sentirci tutti uomini che da soli, al centro di una piazza vuota, mostrano al futuro un cartello strappato.