Da qualche settimana ormai va in onda in Italia a reti unificate il tragico reality show della violenza tra esseri umani. Scritto e diretto dalla classe politica, prodotto dal circuito ufficiale dei media, interpretato da tutti noi, cittadini italiani, studenti stranieri, migranti rumeni, nei ruoli intercambiabili ora di vittime, ora di carnefici, ora della folla impazzita che ripete nevrotica i luoghi comuni nei quali le hanno insegnato a credere.
Il potere politico, travolto dalla sua stessa creatura, ha costruito in fretta sul dilagare della violenza (o meglio, sul dilagare della percezione di violenza, stimolata ad arte dai media), un suo teorema perfetto e schematico, che al solito se da un lato si guarda bene dal rintracciare e cercare di estirpare le radici profonde del problema, dall’altro ha il vantaggio di costruire un consenso facile ed immediato, ottenuto sfruttando appieno l’impatto emotivo generato dai fatti cruenti.
Il teorema è di una semplicità disarmante, e come sempre si gioca su alcune parole chiave: violenza, paura, sicurezza. La violenza genera paura, la paura genera il bisogno di sicurezza. Visto che la violenza viene chiaramente dal basso, da chi sta ai margini, la sicurezza si ottiene attraverso severe misure di polizia contro gli ultimi, contro tutti i soggetti potenzialmente in grado di disturbare la civile convivenza.
Perfetto. Scientifico. Pulito. Veltroni guida la ruspa, Fini gli indica la strada, Prodi accende il semaforo verde e qualche giovanotto volenteroso dà una mano arrangiandosi con spranghe e bastoni.
Si trattasse anche soltanto dell’omicidio di Tor di Quinto, il teorema sarebbe facile da demolire. La violenza nella nostra società è gerarchica, e se ai piani alti rimane violenza psicologica e morale, in fondo alla scala, nel buio delle stazioni, nei magazzini delle fabbriche, nei Cpt, nelle carceri, quella stessa violenza si concretizza, diventa fisica, diventa stupro, aggressione, accoltellamento, pestaggio, suicidio. Ma è la stessa violenza, è una violenza di sistema. E’ la violenza incubata da una società che vive di competitività feroce, che si fonda sull’esclusione, sulla marginalizzazione di chi non ce la fa.
La contraddizione è evidente se si valutano le richieste antitetiche fatte alla classe politica. Sul versante economico si chiede alla politica di flessibilizzare, precarizzare, eliminare le garanzie, i diritti, le tutele. Gli economisti chiedono di lasciare solo l’individuo perché possa essere mangiato e digerito più facilmente, in un sol boccone, dal mercato.
I governi sono chiamati ad innalzare il livello di insicurezza, di instabilità. Organizzano sempre di più per gli uomini un’esistenza a tasso variabile, come i mutui che gli danno da pagare. E poi, le stesse forze che hanno costruito per l’uomo questo habitat, invocano la sicurezza. Dopo aver abbandonato l’uomo sempre più solo nelle tutte identiche periferie del mondo, dopo averlo spinto sempre più vicino al baratro della barbarie, dello scioglimento dei legami sociali e civili, chiedono sicurezza. Permettono, ed anzi pretendono, che degli esseri umani vivano come animali, e poi chiedono vendetta perché uno di loro si è comportato da animale.
Se questa era la situazione dopo i fatti di Roma, da Perugia è arrivata forse la più tragica smentita al teorema di chi crede che la sicurezza sia una ruspa guidata da Veltroni, oppure un’espulsione, una deportazione, un piccolo e asettico pogrom ai danni di un’etnia scelta senza neanche troppa originalità (da millenni le popolazioni romene sono perseguitate. Già Lorenzo il Magnifico a Firenze varava decreti d’emergenza contro “gli zingari”. Che Walter il Magnifico si ispiri al Medici? Tutto è possibile).
A Perugia la morte della studentessa inglese Meredith ci invita a leggere la violenza da una prospettiva diversa da quella razzistica e classista che spiega tutto dando la colpa ai poveri, che sono cattivi in quanto poveri e anche in quanto etnicamente tarati.
Innanzitutto, dopo l’assassinio di Meredith, ci accorgiamo che la violenza è ovunque. Ci accorgiamo che la violenza, appunto, è di sistema. Che la violenza è l’ultima e degradata forma di comunicazione tra individui, laddove abbia fallito la politica, laddove abbia fallito l’arte, laddove abbia fallito ogni altro tentativo di socializzazione, perfino il sesso.
Tra una coscienza e l’altra c’è un deserto di competizione e incomprensione. Un deserto di incertezza e paura che impedisce alla solidarietà di fiorire. Ognuno è solo, agonisticamente solo. E nella sua solitudine coltiva la diffidenza verso gli altri, che diventano tutti potenziali nemici. Nemici contro i quali all’improvviso si può esercitare violenza, anche dopo una festa, perché anche una festa, paradossalmente, può diventare il luogo privilegiato dell’incapacità di comunicare, e della volontà spasmodica di stabilire un contatto, uno qualsiasi, in un altro modo, uno qualsiasi. Che sia l’amore, o la morte.
Il delitto consumato a Perugia, inoltre, ci consente di rileggere l’assassinio di Roma anche per un altro, importantissimo aspetto. Nel ripetere ossessivamente la notizia di un crimine perpetrato da un rumeno povero ai danni di un’italiana benestante, ci siamo dimenticati di sottolineare che si è trattato anche, e forse soprattutto, della violenza di un uomo ai danni di una donna.
Giovanna Reggiani era anzitutto una donna, che la società non è stata in grado di difendere, perché l’umanità non è stata ancora in grado di insegnare al maschio che non può disporre a proprio piacimento del corpo di una donna.
Non l’ha imparato il derelitto rumeno, che già per molti altri motivi era trascinato verso la brutalità animalesca. E non l’hanno imparato probabilmente nemmeno i due uomini che avrebbero ucciso Meredith perché si rifiutava di mettere a loro disposizione il proprio corpo.
Così come non l’hanno imparato le centinaia di mariti, fidanzati e conoscenti che ogni anno abusano delle “loro” donne (e in questo modo di dire sta tutta la tragedia, vecchia di secoli, della nostra società ottusamente patriarcale).
Del resto, dove dovrebbe imparare il maschio che la donna non è carne nata da una sua costola per sfogare i propri istinti?
Di certo non in Chiesa o in Moschea, dove ancora si santifica la donna moglie e madre.
Di certo non per strada, guardando i cartelloni pubblicitari, o sfogliando una rivista, in cui il corpo della donna è la mediazione tra l’uomo e la merce in vendita, anzi, più spesso il corpo allude alla merce, o ha addosso la merce, o è la merce stessa.
Di certo non in televisione, dove il corpo della donna è intrattenimento, è il modo per sostituire l’informazione, è un’arma di distrazione. Di questo passo, il maschio non imparerà facilmente.
E il macabro reality show rischia di trascinarsi ancora a lungo, senza che nessuno abbia la possibilità di cambiare canale.