In principio è la Rivoluzione Francese. Uno dei più suggestivi personaggi della fase eroica della Rivoluzione, Marat, è conosciuto come “L’Amico del Popolo”, e “L’Amico del popolo” è anche il titolo del giornale politico che Marat dirige. Durante la Rivoluzione Francese si raggiunge forse il massimo livello storico di vicinanza tra il popolo virtuale, quello cioè cui le ideologie fanno appello, e il popolo reale. Il potere politico è espressione immediata del popolo che fa la Rivoluzione, e in nome del popolo si decapitano re, si arrestano prelati, si abbattono statue.
Eppure la storia degli appelli al popolo raramente sarà di nuovo così fortunata come nel 1789. Già dieci anni più tardi, a Napoli, alcuni aristocratici illuminati che al grido di libertà, uguaglianza, fraternità tentano di cacciare il re borbone e instaurare la Repubblica per il bene di un popolo virtuale, vengono respinti con pale e forconi dai contadini infuriati, che di questi nobiluomini “infranciosati”, cioè invaghiti delle mode francesi, non sanno che farsene. Il popolo dell’ideologia, già nel 1799, non corrisponde più al popolo reale, e chi si appella al popolo non ne comprende in realtà la cultura, i bisogni, la forma mentale.
Viene Napoleone, e in nome del popolo conquista l’Europa intera, in nome del popolo fonda Repubbliche che poi sopprime, in nome del popolo si autoincorona imperatore, facendosi passare la corona dal Papa ma poi mettendosela in testa da solo: il potere non deve derivargli da nessuno, nemmeno da Dio. Popolo virtuale e popolo reale tornano ad allontanarsi vertiginosamente, e alla parola propagandistica pronunciata da Napoleone non corrisponde più alcun corpo sociale concreto. Il popolo sono io, avrebbe potuto dire l’imperatore parafrasando Luigi XIV.
L’Ottocento è un continuo ribollire di appassionati appelli al popolo. Dalla politica all’arte il popolo diventa un concetto centrale. E’ un soggetto politico da liberare e rendere sovrano, ma è anche un’entità morale, un’astrazione, un sentimento che deve ispirare tanto l’azione quanto la creazione artistica. Manzoni, con gesto radicalmente innovativo, fa di due popolani i protagonisti del romanzo che sarà il suo capolavoro, e intanto gli eroi del Risorgimeno, da Mazzini a Garibaldi, sognano un’Italia resa indipendente e unita dal sollevarsi del suo popolo. Ancora una volta però la distanza tra la retorica del popolo e la realtà sociale e politica fa sentire il suo peso.
Il XIX è un secolo tutto attraversato da mezze rivoluzioni, per lo più fallite perché gli intellettuali e la classe politica, non riescono ad offrire al popolo le condizioni per un suo concreto coinvolgimento nei processi di trasformazione. Il popolo non capisce la lingua in cui sono scritti i proclami commossi di Mazzini, e perfino le nostre Guerre d’Indipendenza sono una fusione di Stati resa possibile dall’abilità diplomatica di Cavour, senza nessuna partecipazione popolare.
Quando a Bronte, in Sicilia, durante la spedizione dei Mille, i contadini vengono a sapere che è arrivata la libertà, si mettono a massacrare i signori e ad appropriarsi di tutto quanto per secoli gli è stato negato. Nino Bixio, il luogotenente di Garibaldi, arrivato sul posto è costretto a fucilare decine di persone per ristabilire l’ordine. E pensare che era sempre per il popolo italiano che i Mille erano salpati da Quarto: ma si trattava del popolo virtuale, non certo di quello reale.
Il Novecento è forse il momento storico in cui la distanza tra popolo virtuale e popolo reale si fa più tragica. Il fascismo sovverte l’ordine democratico per far tornare a risplendere nel mondo il nome del popolo italiano. Ma il popolo qui non è un concetto politico, non è un’entità reale: è un mito, una narrazione che serve al potere per mistificare e giustificare la sua violenza, la sua illegittimità, la sua disumanità. Con l’andare del tempo il popolo si fa razza e l’equivoco ideologico dimostra tutta la sua potenzialità distruttiva: lo sterminio è il punto massimo cui si può arrivare quando si usa la parola popolo senza che dietro ci sia un gruppo di individui socialmente e storicamente determinato.
Nello stesso periodo, lo stalinismo trasforma il popolo in proletariato e forza la realtà per farci entrare questa categoria in gran parte astratta. I contadini deportati nei gulag perché si rifiutano di socializzare i raccolti sono anch’essi popolo, ma non, secondo l’ideologia staliniana, proletariato. Sono cioè popolo reale e non popolo virtuale: per questo vanno soppressi. Non aver compreso la vera composizione del proletariato, e quindi del popolo, è una della cause principali del fallimento dell’esperimento sovietico.
Il comunismo a vocazione democratica del secondo dopoguerra, e soprattutto quello italiano, vive in maniera lacerante la contraddizione tra i quadri dirigenti e il popolo, che deve essere organizzato e guidato. Gli intellettuali, gli scrittori, i registi, si sforzano di “andare verso il popolo”, di comprendere il popolo, di viverci in mezzo e di raccontarlo. Più intensamente di tutti forse Pasolini, che con i suoi “ragazzi di vita” cerca contatti notturni e disperati, e che da quei ragazzi, dai figli del popolo delle borgate romane che egli tanto ama, viene massacrato di botte in una notte di novembre del 1975. Pasolini come un’alchimista avvicina e quasi sovrappone il popolo reale e quello virtuale dei suoi romanzi e dei suoi film. E in questa sovrapposizione si perde.
Da sempre dunque esiste un popolo reale e un popolo virtuale. Da sempre la politica si appella più al popolo virtuale che non a quello reale. Il massimo di virtualità nell’impiego della parola popolo è stato raggiunto con Berlusconi, che dice popolo e forse non è mai salito su un autobus, che dice il popolo ma intende se stesso, e si pone da solo la corona in testa.
Il suo allievo Veltroni poi ha compreso la strategia e raffinato gli strumenti. Va verso il popolo con fare più credibile, guarda negli occhi il popolo con una sincerità perfettamente costruita, e poi va a pranzo con la famiglia operaia torinese insieme alla troupe del Tg1. Il popolo reale sbattuto davanti alle telecamere diventa immediatamente virtuale. La condizione sociale di un operaio nella sua concretezza è svuotata di significato, e la sua famiglia diventa la comparsa dell’ennesima commedia del Sindaco di tutti (non me ne voglia Ruggiano, ma Veltroni è più di tutti di lui).
Finalmente Silvio sembra aver riconosciuto in Walter un suo emulo, molto più scaltro e sofisticato, ma comunque un suo emulo. Nell’ebbrezza dei gazebo e delle firme Berlusconi è tornato al popolo, lo ha reso se possibile ancora più virtuale e lo ha infilato con una forzatura anche grammaticale (partito del popolo delle libertà, troppi complementi di specificazione) nel nome del suo nuovo e iper-virtuale partito.
E’ il gesto disperato di un uomo politico arrivato alla fine della sua carriera, ma non per questo è meno pericoloso. Perché, abbandonato anche dai suoi alleati, Silvio ha deciso di far saltare il banco, abbandonando il bipolarismo (fino all’altro ieri una sua creatura) e tendendo la mano a Veltroni e al suo partito virtualmente democratico. Veltroni, come Ulisse, dovrà farsi legare all’albero maestro della sua nave per resistere alla tentazione della grande coalizione.
La speranza è che il popolo reale, ancora una volta, volti le spalle a chi si appella al popolo virtuale, e smascheri chi tenta di ingannarlo. Ma nell’era di Maria de Filippi che, onnipresente, scende dal cielo in elicottero, esiste ancora la distinzione tra virtuale e reale?