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Una storia (quasi) inedita per riflettere sulla antica notorietà delle raffinate ceramiche della città e sull'andazzo di oggi

I recenti festeggiamenti che Deruta ha dedicato alla santa patrona dei vasai, Caterina di Alessandria, richiamano alla mente un’altra celebre Caterina che legò il suo nome a quello di Deruta.
Nel maggio 1477, infatti, Caterina di Galeazzo Sforza, duca di Milano soggiornò per qualche tempo a Deruta, ospite dei decemviri derutesi, “in una casa splendida ed elegante, arredata con un ricchissimo corredo di suppellettili” che le offrirono doni preziosi sentendosi onorati della visita.
Una volta tanto la piccola Deruta si rifece anche sulla dominante Perugia, che fu costretta a nominare appositamente degli ambasciatori, i nobili Matteo di Francesco Montesperelli e Baglione da Montevibiano, perché raggiungessero Deruta con tanto di omaggi per la giovane duchessa.
All’epoca, Caterina aveva solo 15 anni, ma rivestiva già un ruolo di rilievo. Sposa di Girolamo Riario nipote prediletto del Papa Sisto IV Della Rovere, aveva appena preso con il marito possesso di Imola, il primo maggio 1477, accolta da grandi festeggiamenti.
Di inconsueta bellezza, gli storici dicono manifestasse, fin d’allora, una non comune intelligenza che applicava a molteplici interessi, unita ad uno straordinario coraggio e determinazione nei fatti d’arme che, presto, le avrebbero dato fama fra i contemporanei di “prima donna d’Italia”.
Quale fosse lo scopo della visita di Caterina non è reso noto dai documenti d’archivio, ma Deruta doveva -anche allora – la sua notorietà alle sue raffinate ceramiche.

Due fatti meritano, quindi, di essere approfonditi.
Il primo è che, verso la metà del Quattrocento, si era insediata a Deruta una comunità di maestri lombardi, richiamata dalle agevolazioni fiscali di cui potevano beneficiare i forestieri che vi si trasferivano. I derutesi, infatti, decimati dalla epidemia di peste del 1456, avevano ottenuto dalla dominante Perugia quaranta anni di esenzione dalle tasse. Il beneficio fiscale così vantaggioso, generò un fenomeno di immigrazione che portò a Deruta decine di maestri d’arte provenienti da ogni parte d’Italia e, perfino, dalla Francia.
Dalla Lombardia, oltre a maestri muratori e sarti giunsero diversi vasai, tra cui doveva eccellere Assalonne di Michele da Salò. Diciamo “doveva” specificando, per quelli che non amano le congetture, che le informazioni su Assalonne, come su tutti gli altri, si ricavano da antichi documenti notarili che ancora oggi si conservano negli archivi, visto che all’epoca Deruta non aveva i giornalisti locali che, come avviene oggi, potevano raccontare, magari a loro modo, i fatti della città.
Di Assalonne, infatti, i documenti riportano che fece società con il perugino Bartolomeo di Giovanni di Perugia impegnandosi a fornire i suoi lavori “subtilis aut bene picti”, cioè decorati con raffinate pitture.
Il secondo fatto enigmatico è che nel Museo Nazionale di Ravenna si conservano due grandi piatti rinascimentali “da pompa”, cioè destinati all’esposizione, dove sono raffigurati – secondo lo storico ottocentesco Carlo Malagola- in uno il ritratto di Caterina Sforza e, nell’altro, Girolamo Riario. Seguendo Malagola anche il ceramologo De Mauri li ritenne opere prodotte a Forlì. Ma tanto lo stile che l’esecuzione a lustro, ne fanno due esemplari di chiara marca derutese, così che oggi anche il Museo ravennate li cataloga senza alcun dubbio come originari di una manifattura di Deruta. Ugolino Nicolini li collegò, per primo, alla visita di Caterina.
A Forlì, poi, vi furono sì antiche fabbriche di ceramica, ma non si peritarono con il lustro.
A vederli, ed una visita è veramente consigliabile, i piatti rivelano una datazione molto precoce. I ritratti sono eseguiti a mano libera, senza utilizzare spolveri, e ciò fa pensare che siano stati realizzati prima della grande produzione che si ispirò alle pitture di Perugino. Insomma, proprio nel periodo in cui Caterina giungeva a Deruta.
Non sarebbe azzardato, allora, pensare che la coppia di piatti sia stato l’omaggio dei derutesi alla giovane nobildonna, magari per mano del suo conterraneo Assalonne e che la visita di Caterina fosse dovuta al diffondersi della fama dei primi esperimenti di lustro derutese. Caterina era, infatti, amante del bello e dell’arredamento, ma anche valida alchimista che sperimentò con successo un gran numero di ricette di bellezza.

Alcune considerazioni per oggi.
I derutesi dell’epoca dovevano avere un grande senso di ospitalità e tolleranza, poiché riuscirono ad integrare i tanti stranieri che vi si trasferirono e poiché offrirono un soggiorno “a cinque stelle” a Caterina Sforza, intuendo immediatamente l’importanza di avere fra di loro un testimonial d’eccezione.
A Caterina regalarono un importante piatto a lustro e non un coccio o una brocca qualsiasi, tanto bello che nessuno in oltre cinquecento anni ha mai pensato di disfarsene e che qualcuno lo trova più che degno di stare in un museo nazionale.
Nel museo di Deruta qualcuno pensa, oggi, di mettere all’ingresso presepi e pecore viventi.
Deruta ospitò nel 1500, meno volentieri, Cesare Borgia, alias Duca Valentino, che qui si era accampato con un numeroso seguito. Ma in questo caso le cronache ci rimandano più le distruzioni delle truppe che si misero a rubare grano e vino, che l’incontro che il duca ebbe con il Pinturicchio. Ironia della sorte, Cesare Borgia fu anche il carceriere di Caterina dopo averla sconfitta ad Imola, nonostante l’eroica resistenza di questa.
Al Duca, non pare che i derutesi abbiano dedicato nessun piatto.
Un folto gruppo di appassionati, il 21 novembre scorso, ha apprezzato questa (quasi) inedita storia alla Giornata di studio sulla ceramica del Castello Sforzesco di Milano, dove Gulio Busti, Clara Menganna e chi scrive, hanno relazionato sui ceramisti lombardi a Deruta.
A proposito. Nel piatto con il ritratto di Caterina il pittore ha messo un cartiglio, come usavano i derutesi, che porta l’iscrizione “in chor gintile non rengnia ingratidudine”, cioè negli animi nobili risiede la riconoscenza.

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