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Dai derivati dell'Artemisia dei nuovi farmaci che sono gli unici raccomandati dall’Oms per la chemioterapia nei Paesi in cui i tradizionali farmaci antimalarici non hanno più alcun effetto

Se il successo del convegno di Todi su Fitoterapia e Sport ha dimostrato che verso un modo naturale, non diverso ma integrativo della farmaceutica di sintesi, di affrontare le malattie sono cadute molte resistenze, una nuova scoperta scientifica dovrebbe far tramontare ogni residua ostilità.
Ora l’attenzione dei ricercatori è puntata su una pianta, l’‘Artemisia annua’, una composita di origine cinese, diffusa in modo incostante anche nel nostro Paese, dove si comporta da ruderale o glareicola (pianta delle ghiaie, specialmente degli alvei fluviali).
Da questa pianta potrebbe venire la soluzione per una malattia, la malaria, una patologia terribile che colpisce l’umanità da 7.000 anni e non è ancora stata debellata. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ogni anno si registrano nel mondo dai 300 ai 500 milioni di casi, con 1,5–2 milioni di decessi, soprattutto in Africa, fra i bambini al di sotto dei 5 anni.
Gli sportivi meno giovani ricorderanno che fu proprio questa malattia a stroncare la vita del “campionissimo” del ciclismo Fausto Coppi.

Il contenuto della pianta denominato “Artemisinina” è “il più potente antimalarico esistente”, ha spiegato Giancarlo Marconi, ricercatore dell’Istituto di sintesi organica e fotoreattività (Isof) del Cnr di Bologna.
“L’efficacia di questa molecola è tale che i farmaci da essa derivati, l’Artemether e l’Artesunate, sono gli unici raccomandati dall’Oms per la chemioterapia nei paesi (e sono la maggior parte) in cui i tradizionali farmaci antimalarici hanno perso ogni efficacia”.
Da alcuni anni la ricerca guidata da Marconi si sta occupando di questo farmaco, innanzitutto per rendere veicolabile la molecola – pressoché insolubile in acqua – inserendola in cavità idrosolubili come quelle delle ciclodestrine, che una volta entrate nell’organismo possono rilasciare il medicinale con efficacia.

Un altro studio riguarda l’inclusione della sostanza in proteine di trasporto, quale la siero-albumina umana (Hsa), per calcolare quante molecole possano essere inglobate nella proteina, grazie a studi spettroscopici.
Accanto a questi studi, l’Isof in collaborazione con i colleghi dell’Istituto di biometeorologia (Ibimet) del Cnr di Bologna, sta tentando di migliorare i contenuti di Artemisinina estraibili dalle piante di Artemisia annua, sia attraverso la selezione di fenotipi che mostrino una maggiore quantità del principio attivo, con coltivazioni in vitro e in serra, sia con l’avvio di coltivazioni estensive in terreni a bassa vocazione agricola, sia ancora con il miglioramento delle tecniche estrattive, al fine di ottimizzare la resa del prodotto.
Quanto spiegato da Marconi coincide con i programmi dell’associazione “Mario Resta” di Todi la quale, appunto, si prefigge di realizzare “filiere” di piante utilizzabili per la fitoterapia, partendo dalla coltivazione e dalla lavorazione per estrarre i contenuti benefici fino a stabilire protocolli di somministrazione ai malati.

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