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Trent'anni fa l'uccisione dello statista della Dc: in un libro la tesi del giornalista Sandro Provvisionato e del giudice Ferdinando Imposimato

Trent’anni fa, il 9 maggio 1978, le Brigate Rosse dispiegando tutta la loro “geometrica potenza” rapirono l’onorevole Aldo Moro che si apprestava a varare un governo con il sostegno dei comunisti.
Moro fu assassinato dopo 55 giorni di prigionia e fatto trovare dentro un R4 rossa in Via Caetani a Roma.
Molto si è detto e scritto sul caso Moro, ma a distanza di 30 anni non tutto è stato chiarito. E i punti oscuri restano parecchi.
Il giornalista Sandro Provvisionato, attualmente coautore e conduttore di “Terra!” su Canale 5, nel 1978 fece parte di un pool di inviati messo in piedi dall’Ansa per seguire 24 ore su 24 le indagini sul sequestro Moro e si è occupato poi di numerose inchieste sul terrorismo. Insieme a Ferdinando Imposimato (all’epoca giudice dell’inchiesta) ha scritto un nuovo libro. Titolo: “Doveva morire: chi ha ucciso Aldo Moro”. Si tratta di un libro che cerca di rimettere insieme i tasselli delle cose note e anche di quelle non ancora note.
Ne esce una tesi successiva e inquietante. Ne hanno parlato con l’autore Provvisionato due giornalisti “Primapagina”, quindicinale che esce tra Umbria e Toscana. Ecco il testo dell’intervista che riproponiamo.

Perché un altro libro sul caso Moro? “Perché dopo sei istruttorie, un’infinità di processi, due commissioni d’inchiesta parlamentare, il caso Moro è come un grande puzzle a cui mancano ancora molte tessere”.

Qualche esempio?
“Non sappiamo quanti erano i brigatisti in Via Fani, chi sparò davvero la metà dei colpi sparati (dal momento che i quattro Br che dicono di aver sparato dicono anche che le loro armi si incepparono); chi fece ritrovare il covo di Via Gradoli, che ruolo ebbe la P2 nel comitato di crisi; perché esponenti dell’Hyperion (la scuola di lingue francese), tutti ex militanti delle Br, vengono a Roma proprio a ridosso del caso Moro e se ne vanno a vicenda conclusa; perché il sequestro Moro assomiglia così tanto al sequestro Schleyer commesso dai terroristi tedeschi della Raf; chi era il falso studente Sergej Sokolov che tanto si interessava alla scorta di Moro e che risulta essere stato un agente del Kgb…”

Qual è la tesi del libro? “Al di là dei molti interrogativi aperti, quello che a Imposimato e a me interessava era capire, a 30 anni di distanza, se Moro poteva essere salvato. La risposta è sì, poteva essere salvato pur rimanendo integra la linea della fermezza. Nel primo elenchiamo scrupolosamente almeno otto occasioni in cui la prigione del popolo poteva essere scoperta e, volutamente, non lo fu. E non lo fu non per la ragion di Stato, ma per ragione di bottega interne al partito della Dc.
Per sparare ad un uomo occorrono una pistola, un grilletto e un dito. Noi sappiamo con certezza che la pistola ha un nome: Brigate Rosse. Ma di chi è il dito che ha premuto il grilletto? Per scoprirlo basta leggere con attenzione le relazioni prodotte all’interno del Comitato di crisi voluto da Cossiga (relazioni mai rese pubbliche e che il libro contiene).
Sono le relazioni prodotte dai consulenti dell’allora ministro dell’Interno: i professori Franco Ferracuti e Stefano Silvestri e l’amico “amerikano” Steve Pieczenik del Dipartimento di Stato Usa. Basta leggerle per capire che Moro “doveva morire”.

In definitiva perchè Moro è stato ammazzato? “Nei delitti politici non c’è mai un unico movente. Quando si muore – e il discorso vale anche per i delitti politici di mafia – è sempre per una convergenza di interessi. L’esempio più lampante è quello del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Muore in Sicilia, sparargli è la mafia, ma la sua morte serviva anche a Roma (non è un caso che proprio Dalla Chiesa fosse il depositario del memoriale Moro). Lo stesso vale per il presidente della Dc. Per le Br incarnava il potere democristiano e quindi lo Stato. Ma Moro era scomodo anche nel suo partito. Non piaceva agli americani per le sue continue aperture a sinistra (prima il centro-sinistra, poi l’ingresso dei comunisti nell’area di governo), ma non piaceva neppure ai sovietici ce in questo modo vedevano il Pci uscire dall’orbita di Mosca, cattivo esempio anche per Francesi e Spagnoli. Quindi Moro è morto per una convergenza di interessi. Resta il fatto grave: chi aveva il dovere politico e istituzionale di salvarlo fece di tutto perchè Moro morisse”.
                                                                                        Luigino Scricciolo, Antonio Positino

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