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Episodi di miseria e povertà: sveglia alle quattro, due sardine per colazione e per pranzo una fetta di pane, una salsiccia, un po' di erba e l'acqua dei fossi

Nel dopoguerra, estate e inverno, giovani e vecchi, andavano a fare il fastello alla macchia, ma quella più vicina a casa nostra era a cinque chilometri da Spina (Marsciano) e quella più sicura, cioè meno controllata dai guardiani, ne distava dieci. Così partivamo da casa a piedi con la corda ed il “ronchetto” e tornavamo dopo quattro o cinque ore.
I padroni delle macchie a fare i guardiani ci mettevano quelli più poveri e cattivi. Un giorno a due ragazzi gli hanno levato i ronchetti e le corde facendo piangere il più piccolo: “Adesso come faccio a tornare a casa senza legna? Il babbo mi mena”. Ma il guardiano li ha mandati uguale in tribunale, solo perché andavano a prendere un pochino di legna secca, quella che cadeva dalle vecchie piante per potersi scaldare e fare da mangiare non avendo soldi per comprarla.

Per il bestiame di legna ce ne voleva tanta. La nostra famiglia aveva una grossa caldaia per cuocere le barbabietole e le zucche per i maiali. Un po’ le mangiavamo anche noi perché erano dolci.
Per fare la legna si doveva chiedere il permesso al fattore. Il più anziano della famiglia partiva a piedi e andava dal fattore come tutti gli anni per chiedergli se ci faceva tagliare un pezzo di macchia. Il fattore abitava lontano, in un paesino di montagna che si chiamava Gaiche e ci volevano oltre tre ore di cammino. Si dovevano attraversare parecchi boschi e per paga portavamo un paio di pollastri. E così il fattore assegnava un pezzo di macchia che segnava tagliando un pezzo di scorza alle piante.

Quando si andava a fare la legna la sveglia era alle quattro. Si faceva colazione con due sardine a testa. Quando si partiva eravamo tutti carichi di attrezzi per tagliare molto pesanti, un fascio di coste di vinco verdi per legare le fascine, poi il mangiare con cinque o sei bottiglioni di vino. L’acqua si prendeva nei fossi che era limpida e fresca.
Verso le undici si accendeva il fuoco perché d’inverno il freddo non mancava. Poi verso le una e mezzo si pranzava riscaldando una grossa teia di erba e un po’ di salsicce, sempre poche per la fame che avevamo. Per noi di casa ne toccava una e mezza a testa, per quelli che ci aiutavano due a testa. La pancia si riempiva mangiando pane e erba.

Vicino alla macchia abitava una famiglia molto povera con tanti figli. Durante l’anno ci preparava, di nascosto dal padrone, un viaggio di legna grossa. Il figlio più grande veniva a casa a piedi ad avvisarci quando era pronta. Il giorno dopo andavamo con il carro a prenderla e gli portavamo un po’ di farina, un po’ di pane e di vino. Così quando si pranzava il vecchio della famiglia radunava i bovini e le pecore e si accomodava con noi. Una fetta di pane, una salsiccia e un bicchiere di vino lo rimediava sempre. E sorpreso esclamava: “E, ma a cussine?”.
Erano così poveri che non avevano neanche il granoturco da mangiare. Si arrangiavano con la macchia. Quando mettevano i fagioli da seme, il padrone glieli pesava, e poi andava a vedere se nelle fosse c’erano tutti o se li erano mangiati. Alla macchia si andava per una settimana intera. Così quando arrivavamo noi per loro era una festa, perché qualche fila di pane si portava sempre.

Nella macchia la legna più bella era in fondo ai fossi. I pezzi grossi si nascondevano dentro le fascine e per noi ragazzi portarle a spalle era una grossa faticata. La legna serviva anche per la casa. A quei tempi, infatti, i contadini avevano tutti il focolare grande perché, specie quando c’era qualcuno, si doveva mettere appeso alla grossa catena di ferro il caldaio più grande perché c’erano i maccheroni fatti in casa, sempre senza uova, per 25 persone, quanti eravamo noi.
Questi focolari lateralmente avevano due nicchie così grandi che ci potevano stare anche tre persone, mentre tutti gli altri si sedevano a cerchio lontano dal fuoco per poterci entrare il più possibile. Ma tutti non ci si poteva stare perché eravamo troppi e le sedie non c’erano.

Avevamo due banchi attorno alla tavola ma erano lunghi e pesanti e così, specie i piccoli, stavano appoggiati al babbo o alla mamma. Quelli più fortunati erano quelli che stavano dentro le nicchie e che, pure se il fuoco era troppo, non si spostavano. Noi ragazzi, al cenno di qualche grande, andavamo nell’aia e prendevamo un crino di paglia. La portavamo in cucina e qualcuno la buttava sul fuoco e diceva: “Fuori i caldi e dentro i freddi”. Questo era l’unico modo per fare ogni tanto il cambio.
A una certa ora arrivava per i più piccoli il momento di andare a letto. E si doveva andare per forza altrimenti i grandi si levavano la cintura, quando per scherzo e quando no. Noi non ci volevamo andare perché la camera era fredda e i lenzuoli ruvidi e gelati.

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