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Il grande sociologo francese Edgar Morin afferma la fine del pensiero unico come un importante risultato della attuale crisi economica.

Prevede un “ritorno dell’etica” e della domanda “come vogliamo vivere”, cioè di scelte più consapevoli sulla base di valori condivisi. Ovviamente non intende scelte dettate dalla paura e dalla sensazione o realtà di dover rinunciare a beni e servizi che fino all’altro giorno rendevano la vita piacevole. Per quanto il calo nelle vendite delle automobili sia una buona notizia per l’ambiente – gli italiani riescono a garantire la propria mobilità comprando meno macchine – certo non si tratta di scelte consapevoli a favore della qualità dell’aria, del clima e delle future generazioni. Si tratta di una rinuncia che la politica cerca di contrastare con il premio per la rottamazione, l’utilizzo di fondi pubblici per stabilire la dipendenza dal comprare come atto di affermazione e soddisfazione, a prescindere dal valore d’uso degli oggetti del desiderio.

A questo punto sono in molti gli ambientalisti che sperano si possano usare le manovre di spese pubbliche dei governi occidentali per stabilizzare l’economia, in modo da re-indirizzare il sistema economico verso un livello più alto di sostenibilità. Il concetto magico è “Green New Deal” e non ne parlano solo gli ambientalisti, ma da Barack Obama ad Angela Merkel e Walter Veltroni esistono le buone intenzioni di usare fondi pubblici per investimenti nelle energie rinnovabili, così da legare il sostegno dell’industria automobilistica alla produzione di veicoli meno inquinanti, migliorare il trasporto pubblico e la performance energetica del patrimonio edilizio esistente. La crisi dà l’impulso per incentivare Mega Buone Pratiche.

Riusciranno i nostri eroi? Probabilmente no. Esiste a tutt’oggi un dibattito tra gli economisti sugli effetti dello storico New Deal, programma del governo Rouswelt per uscire dalla Grande Depressione del 1929. Sembra piuttosto chiaro che le spese dello stato per creare posti di lavoro e riavviare la macchina economica hanno avuto effetti contraddittori e forse hanno distrutto più posti di lavoro di quelli che hanno creato, prolungando la crisi. Certo è che solo con il boom dell’economia di guerra c’è stata una svolta decisiva.

E oggi? Non esistono gli elementi per fare delle previsioni fondate sull’efficacia dei vari pacchetti anti-crisi dei governi occidentali. Tutti navigano a vista. Però si può dire che le forze sociali impegnate per un futuro sostenibile stanno sprecando le loro energie fissandosi sulle prospettive “verdi” delle politiche governative. Se usiamo il criterio dell’addizionalità, cioè per esempio l’aumento dei generatori eolici o la riduzione delle emissioni delle automobili a causa di fondi messi a disposizione e che senza crisi non ci sarebbero stati, il “Green New Deal” molto probabilmente non produrrà grandi risultati, per almeno due ragioni. La prima è che nell’emergenza drammatica di dover riavviare una macchina che non solo sta rallentando ma potrebbe anche bloccarsi completamente, la ristrutturazione di questa macchina ha una bassa priorità. Già le cifre parlano chiaro. Il presidente americano intende investire nei prossimi 10 anni 150 miliardi di dollari nelle energie rinnovabili. In 10 anni. Subito intende spendere 2500 miliardi di dollari in un pacchetto di salvataggio del sistema finanziario. Il fondo speciale tedesco per stabilizzare il mercato finanziario ha un volume di 480 miliardi di euro, i premi per la rottamazione di automobili vecchie e le misure infrastrutturali che forse potrebbero produrre qualche effetto ambientale si trovano con molte altre misure in un pacchetto di 11 miliardi per il 2009 e il 2010.

Ma non sono solo le relazioni quantitative che fanno dubitare che il Green New Deal sarà davvero verde, ma anche e soprattutto la debolezza delle visioni e idee di un’economia e una società non dominata dal pensiero unico della crescita infinita. Dice Lenin che le cose cambieranno quando quelli in alto non possono più e quelli in basso non vogliono più. Che per i primi la situazione sia insostenibile è piuttosto evidente in questi mesi, per i secondi molto di meno. I segnali positivi di questi giorni – meno consumismo, meno rifiuti, meno emissioni – mica sono buone pratiche, risultati di una crescente sensibilità ecologica. È la paura di indebitarsi in un momento così precario che porta alla conclusione che l’attuale macchina tranquillamente può fare un altro anno o due. È vero che il pensiero unico della crescita come valore indiscusso è in crisi, ma è anche vero che nel discorso pubblico valori alternativi come quello della misura giusta, dell’equità e della solidarietà e proposte e buone pratiche di come renderli socialmente rilevanti si fanno sentire poco. Le opportunità di questa crisi non stanno in qualche “Green New Deal” imposto dall’alto e semmai sono opportunità che affidiamo tranquillamente a Obama, Merkel e Veltroni.

Ma operare per una trasformazione diffusa di coscienza, su come vivere e lavorare rimarrà il compito della moltitudine di movimenti attivi da anni a favore della conversione ecologica dell’economia e della società. Essi continueranno il proprio lavoro per dimostrare con fantasia e convinzione che un altro mondo è possibile.

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