I dati statistici diffusi dalla Unione Europea confermano la posizione di retroguardia dell’Italia in tema di istruzione universitaria.
Si evidenza ancor più la contraddizione italiana: giovani che desiderano elevare la loro istruzione più che la media dei loro coetanei europei, giovani italiani che giungono alla laurea in età più avanzata che nel resto d’Europa.
E l’Italia che è agli ultimi posti in Ue per giovani dai 25 ai 34 anni con un diploma di laurea (tertiary level education).
Lo dice Eurostat che indica la percentuale di Italia e Austria al 19%, vanno peggio solo Repubblica Ceca (16%), Romania (17%) e Slovacchia (18%). I dati si riferiscono al 2007.
Dalla parte opposta della classifica invece Cipro (47%), Irlanda (44%) e Francia (42%).
La media Ue è del 30%, contro il 25% di coloro che hanno da 35 a 44 anni e il 19% di quelli che hanno dai 45 ai 64 anni. In Italia i laureati dai 35 ai 44 anni sono il 14%, mentre quelli dai 45 ai 64 anni scendono al 10%.
Secondo i dati di Eurostat, il grado di istruzione dei genitori ha una netta influenza sul livello di formazione dei ragazzi: in Italia il 60% dei ragazzi (25-34 anni) che hanno conseguito una laurea hanno genitori con un livello di studi superiore e solo il 7,7% sono quelli che comunque hanno raggiunto un diploma di laurea pur avendo genitori con un basso livello di formazione. Restano pochi in Italia gli studenti stranieri iscritti a un corso di laurea: 1,4% nel 2000 e 2,4% nel 2006. In questo caso la percentuale maggiore nell’Ue è in Gran Bretagna (18,3%) seguita dall’Austria (15,6%).
Ma forse, anche se dirlo potrebbe essere “politicamente scorretto”, occorrerebbe puntare l’attenzione sull’offerta di cultura universitaria, visto che anche dal versante del mondo produttivo non vengono grandi entusiasmi per i laureati italiani.
L’impresa italiana, caratterizzata da una prevalenza di piccole e medie imprese, sarà sicuramente provinciale e con “padroni” nati dalla gavetta che, come in ogni posto, preferiscono cooptare solo chi non minaccia di sovrastarli, ma il dato dovrebbe far riflettere se il modo in cui si insegna nelle università italiane è quello giusto.
In vero, a sentire le storie, divenute vere e proprie leggende, sulle performance di taluni professori, sembra proprio che la capacità di insegnare non sia la prima caratteristica che viene presa in considerazione quando si sceglie un professore dell’università italiana.
Si può anche essere geni, ma se non si riesce a raggiungere quella sintonia con gli allievi capace di coinvolgere quest’ultimi, sarebbe meglio che tanti restassero nel chiuso dei loro “laboratori” ed affidassero la trasmissione del loro sapere a mediatori più capaci.
Stesso discorso anche se si ha curriculum di studi e pubblicazioni lungo come lenzuola.
Quel che sorprende chi si avvicina ad un testo universitario inglese o americano è la facilità di lettura, parole semplici e discorsi scorrevoli, esempi di immediata e completa comprensione.
Laddove nei testi italiani prevale il tecnicismo, più oscuro è meglio è, la prolissità, la teoria astratta senza nessun aggancio con la realtà.
Non tutti i testi sono ovviamente così, quelli che trattano materie umanistiche sfruttano il fatto di parlare di idee e quindi possono fare sfoggio di cultura; ma quelli scientifici sono proprio una frana: il più delle volte sembrano discorsi tra “professori” quando dovrebbero rivolgersi a ben altro pubblico.
Si evidenza ancor più la contraddizione italiana: giovani che desiderano elevare la loro istruzione più che la media dei loro coetanei europei, giovani italiani che giungono alla laurea in età più avanzata che nel resto d’Europa.
E l’Italia che è agli ultimi posti in Ue per giovani dai 25 ai 34 anni con un diploma di laurea (tertiary level education).
Lo dice Eurostat che indica la percentuale di Italia e Austria al 19%, vanno peggio solo Repubblica Ceca (16%), Romania (17%) e Slovacchia (18%). I dati si riferiscono al 2007.
Dalla parte opposta della classifica invece Cipro (47%), Irlanda (44%) e Francia (42%).
La media Ue è del 30%, contro il 25% di coloro che hanno da 35 a 44 anni e il 19% di quelli che hanno dai 45 ai 64 anni. In Italia i laureati dai 35 ai 44 anni sono il 14%, mentre quelli dai 45 ai 64 anni scendono al 10%.
Secondo i dati di Eurostat, il grado di istruzione dei genitori ha una netta influenza sul livello di formazione dei ragazzi: in Italia il 60% dei ragazzi (25-34 anni) che hanno conseguito una laurea hanno genitori con un livello di studi superiore e solo il 7,7% sono quelli che comunque hanno raggiunto un diploma di laurea pur avendo genitori con un basso livello di formazione. Restano pochi in Italia gli studenti stranieri iscritti a un corso di laurea: 1,4% nel 2000 e 2,4% nel 2006. In questo caso la percentuale maggiore nell’Ue è in Gran Bretagna (18,3%) seguita dall’Austria (15,6%).
Ma forse, anche se dirlo potrebbe essere “politicamente scorretto”, occorrerebbe puntare l’attenzione sull’offerta di cultura universitaria, visto che anche dal versante del mondo produttivo non vengono grandi entusiasmi per i laureati italiani.
L’impresa italiana, caratterizzata da una prevalenza di piccole e medie imprese, sarà sicuramente provinciale e con “padroni” nati dalla gavetta che, come in ogni posto, preferiscono cooptare solo chi non minaccia di sovrastarli, ma il dato dovrebbe far riflettere se il modo in cui si insegna nelle università italiane è quello giusto.
In vero, a sentire le storie, divenute vere e proprie leggende, sulle performance di taluni professori, sembra proprio che la capacità di insegnare non sia la prima caratteristica che viene presa in considerazione quando si sceglie un professore dell’università italiana.
Si può anche essere geni, ma se non si riesce a raggiungere quella sintonia con gli allievi capace di coinvolgere quest’ultimi, sarebbe meglio che tanti restassero nel chiuso dei loro “laboratori” ed affidassero la trasmissione del loro sapere a mediatori più capaci.
Stesso discorso anche se si ha curriculum di studi e pubblicazioni lungo come lenzuola.
Quel che sorprende chi si avvicina ad un testo universitario inglese o americano è la facilità di lettura, parole semplici e discorsi scorrevoli, esempi di immediata e completa comprensione.
Laddove nei testi italiani prevale il tecnicismo, più oscuro è meglio è, la prolissità, la teoria astratta senza nessun aggancio con la realtà.
Non tutti i testi sono ovviamente così, quelli che trattano materie umanistiche sfruttano il fatto di parlare di idee e quindi possono fare sfoggio di cultura; ma quelli scientifici sono proprio una frana: il più delle volte sembrano discorsi tra “professori” quando dovrebbero rivolgersi a ben altro pubblico.