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Il futuro dell’ospedale della Media valle del Tevere non è sganciato dal futuro del suo territorio, dei suoi cittadini e della nostra città. E la riflessione che siamo chiamati a fare, e che non deve fermarsi al consiglio grande, non può svilupparsi a compartimenti stagni.

La possibile chiusura del punto nascita rientra in uno spettro più ampio di responsabilità. Ed è stucchevole assistere al tiro al bersaglio di chi cerca ostinatamente un colpevole, soprattutto in questa fase politica in cui il male assoluto di ieri diventa il “bene del Paese”.

Dobbiamo parlare di politica sanitaria, di organizzazione delle strutture, di servizi: di un mosaico di tessere che andrebbero incastrate tra loro come in un meccanismo delicato e che solo così possono davvero rappresentare un fiore all’occhiello.  

Inaugurato il 21 maggio del 2011, l’ospedale della Media Valle del Tevere è costato 41 milioni 623mila euro (compresi strumenti e arredi), si sviluppa su 22mila metri quadrati di superficie divisi in 5 blocchi, per un costo al metro quadrato di 1587,30 euro. Offre 133 posti letto e dispone di un parcheggio da 500 posti.

Il taglio del nastro venne accompagnato da dichiarazioni entusiastiche: “L’inaugurazione di questa bella struttura non rappresenta un semplice trasferimento di personale e servizi, ma un nuovo modello, una nuova fase della storia sanitaria di questo territorio e un momento importante nel processo di riorganizzazione e riqualificazione della rete ospedaliera regionale”.

Oggi, 8 anni dopo, quella “nuova fase della storia sanitaria” comincia già a perdere i pezzi. Posizionato al centro di un territorio vasto (68mila abitanti) non è in grado di garantire la necessaria capacità attrattiva per mantenere i servizi offerti alla comunità. Nello specifico, non riesce a raggiungere i 500 parti l’anno così da garantire il suo punto nascita.

Questo forse perché nella rete sanitaria regionale sono altre le realtà su cui si scommette? O ancora perché si sceglie di concentrare alcune specialità su determinate strutture, lasciando ad altre di incrementare prestazioni diverse? 

Se così fosse, sarebbe addirittura legittimo. Ma strategie come questa dovrebbero essere accompagnate da chiarezza, trasparenza, coraggio. A oggi non conosciamo i dettagli del nuovo piano sanitario regionale che la giunta – dimissionaria – ha approvato nelle scorse settimane. Temiamo però che una certa tendenza ad accentrare sul capoluogo di regione servizi e professionalità sia diffusa e pericolosa, anche per lo stesso ospedale perugino. E possa andare a discapito del resto della comunità. 

Quello che sappiamo con certezza è che siamo nel bel mezzo di un inverno demografico agghiacciante. Al 31 dicembre 2018, la popolazione residente a Todi risulta pari a 16.450 unità, ossia 833 residenti in meno rispetto al 2008, per un calo pari al 4,8%. Le nuove nascite relative al 2018 sono state 84, numero che riflette l’andamento demografico con saldo negativo che interessa tutto il Paese.

Avere meno nati a Todi, Marsciano, Deruta o Massa Martana (a patto che quelle donne scelgano di partorire a Pantalla piuttosto che a Perugia, Terni o Spoleto) non significa soltanto vedere il punto nascita dell’ospedale sull’orlo di un precipizio. Perché meno bambini oggi, significano anche meno classi nelle scuole domani e poi ancora meno “utenti” di servizi nei prossimi anni. Significa perdere il futuro, significa smettere di costruire il domani. 

L’emergenza che oggi ci impegna rischia di essere soltanto uno dei tanti tratteggi di una crisi che, se non risolta, farà sentire i suoi effetti per decenni.

Allora, il tema del futuro dell’ospedale comprensoriale non deve ridursi a sterile ripicca o, peggio ancora, vano battibecco elettorale. Deve piuttosto coagulare energie, risorse, idee per immaginare un futuro diverso. Il Comune di Todi ha avviato un percorso importante di sostegno alla famiglia. Bisogna andare avanti su questa strada, bisogna fare di più. Non rischiamo di perdere soltanto il punto nascita. Rischiamo di ipotecare la rinascita del nostro territorio.

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