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Presentato il nuovo lavoro dell'Agenzia Umbria Ricerche: dal mondo del lavoro segnali positivi, ma i costi energetici stanno affossando la ripresa
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L’Agenzia Umbria Ricerche ha presentato la Relazione Economico Sociale:  “Dalla pandemia alla guerra, l’Umbria tra segnali di ripresa e instabilità globale”.
Vediamo allora cosa emerge dal quadro complessivo dell’Umbria, tracciato dall’AUR.

Ricordando che la recessione del 2020 aveva penalizzato l’Umbria un po’ meno dell’Italia, sia in termini di Pil sia di occupati, la ripresa del 2021 ha continuato a premiare la regione sul fronte lavorativo, mentre l’andamento complessivo dell’economia appare sostanzialmente allineato a quella nazionale. L’aumento reale del prodotto interno lordo, indicato dall’Istat per l’Italia pari a 6,64%, risulterebbe per l’Umbria del 6,61%, secondo un esercizio di stima dell’Aur.

Tuttavia, il clima di fiducia che si stava consolidando presso le imprese (ordini in aumento, sostenuto utilizzo della capacità produttiva, attese positive sull’export, crescita delle intenzioni di investimento, basse preoccupazioni per i vincoli finanziari) ha cominciato ad essere minacciato, già a fine 2021, da segnali di rallentamento del commercio internazionale e delle stesse produzioni, per le persistenti difficoltà sul fronte dell’approvvigionamento delle materie prime e per il forte rincaro dei prodotti energetici che ha avviato una spirale inflazionistica. Lo scoppio della guerra in Ucraina a febbraio è stato poi deflagrante anche dal punto di vista economico. L’attuale congiuntura è dunque profondamente cambiata e rende fortemente incerte le prospettive.

L’Umbria, per le sue dimensioni ma anche per i legami intersettoriali fortemente dipendenti dall’esterno, è strettamente collegata alle sorti del Paese, per il quale le più recenti stime economiche sono state riviste ulteriormente al ribasso (dopo i primi segnali di allerta di fine anno): la crescita per il 2022 è stata stimata nelle migliori previsioni pari al 2,9% (DEF), al 2,3% (FMI) fino ad arrivare all’1,9% (Centro Studi Confindustria). Si tratta di numeri in divenire, soggetti probabilmente ad altre revisioni dipendenti dall’andamento degli eventi. Molti shock si sovrappongono alla lunga coda di una pandemia relativamente sotto controllo ma non ancora terminata: rincari energetici, carenza di materie prime, difficoltà negli approvvigionamenti, sanzioni economiche, inflazione, dunque ogni numero a questo punto è fortemente aleatorio visto lo stato di incertezza collegato alla durata del conflitto e le conseguenze che lo stesso sta generando, e che probabilmente continueranno ad avere i loro strascichi nei rapporti geopolitici anche una volta che la guerra finirà. 

Inflazione e rincari energetici mettono a rischio la ripresa
Pesanti rincari hanno afflitto le fonti energetiche:
a inizio marzo il prezzo del gas ha raggiunto i 227 euro per mwh (era 72 alla vigilia del conflitto, 20 a gennaio 2021 e 9 euro a febbraio 2020); il costo del petrolio è salito a 133 dollari al barile, prima di rientrare leggermente (era 99 prima del conflitto e 55 a febbraio 2020). La crescita dei prezzi ha colpito in maniera più diretta e consistente i settori manifatturieri, mentre più contenuti, al momento, sono stati i rialzi nel settore terziario, con l’eccezione delle fiammate particolarmente elevate nei trasporti. 

Per l’Umbria l’incidenza dei costi energetici sul totale dei costi di produzione (a parità delle voci di costo non energetiche) si stima che passerà dal 4,8% del periodo pre-pandemico all’8,3% dell’anno in corso, per un aumento del 73% (a fronte del 77% nazionale). Per il settore metallurgico, quello più energivoro, si prevede che tale incidenza sarà più che doppia.

Ci si attende che, dopo aver assottigliato nel breve periodo la riserva di potere d’acquisto dei risparmi aggiuntivi accumulati nell’ultimo periodo, l’inflazione comporterà conseguenze negative su redditi e consumi, sulla domanda aggregata e anche, potenzialmente, sulla competitività delle imprese nei settori più esposti. L’entità di questo impatto dipenderà dall’intensità e dalla rapidità con cui gli impulsi si trasmetteranno sui prezzi finali. Si palesa il rischio di una spirale prezzi-salari, con conseguenze tendenzialmente recessive: riduzione dei consumi, contrazione della propensione al risparmio delle famiglie, peggioramento dell’occupazione.

Le possibili criticità per le produzioni umbre
La crisi in corso, pur correndo trasversalmente tra i settori, è prima di tutto una crisi dell’industria, più che dei servizi, e in questo la regione si trova un po’ più svantaggiata dell’Italia visto che l’industria in senso stretto pesa per il 20,8% del valore aggiunto regionale (19,7% in Italia). 

La produzione manifatturiera umbra è fortemente dipendente dai collegamenti con le economie esterne, soprattutto delle altre regioni italiane: le risorse manifatturiere disponibili, destinate cioè ai settori produttivi o al soddisfacimento della domanda finale, solo per la metà sono costituite dall’output prodotto entro la regione, in quanto l’altra metà è importata dall’esterno (due terzi dalle altre regioni e un terzo dal resto del mondo). Ma c’è dell’altro: la forte concentrazione nei segmenti intermedi della filiera produttiva rende il microcosmo manifatturiero umbro particolarmente vulnerabile in quanto parte integrante di un sistema di relazioni produttive e commerciali globali fortemente interconnesse, al punto tale che interruzioni forzate di singoli anelli della catena di fornitura possono mettere a repentaglio il funzionamento dell’intero sistema. 

La metallurgia è probabilmente il settore su cui si stanno concentrando le maggiori criticità, perché agli aumenti dei prezzi d’acquisto dell’acciaio si aggiungono le difficoltà di approvvigionamento. Si tratta di un settore relativamente più presente in Umbria rispetto alla media nazionale (3,2% il valore aggiunto generato contro il 2,6% italiano), che spicca tra l’altro per la maggiore dipendenza approvvigionativa dall’esterno (insieme al comparto della moda): le risorse intermedie che servono alla sua produzione sono per il 78% acquistate da fuori regione (il 51% dalle altre regioni d’Italia e il 27% dall’estero). Al contrario, la più alta specializzazione nelle costruzioni potrebbe costituire, pur con tutti i rincari e le difficoltà di approvvigionamento delle materie prime e dei semilavorati, una sorta di settore “cuscinetto”, vista la forte ripresa del comparto edile in atto, trainata dagli incentivi governativi, che sarà ancor più sollecitata dagli interventi collegati alla realizzazione del PNRR.

Il nodo del commercio estero
Sul fronte delle esportazioni, l’Umbria sembrerebbe relativamente più esposta di altre regioni ai vincoli imposti dalle vicende attuali perché si caratterizza sia per una specializzazione geografica più elevata della media italiana nell’interscambio verso l’area Russia-Ucraina-Bielorussia, sia perché la metallurgia – tra i comparti più toccati dalla crisi – genera oltre un quarto del fatturato esportato dalla regione.

Cionondimeno, va ricordata la relativamente bassa esposizione dell’Umbria agli shock esterni da domanda mondiale, e questo non tanto per la sua specializzazione esportativa – che risulta invece concentrata in settori particolarmente esposti – quanto perché l’export non costituisce una componente quantitativa di domanda così strategica come lo è per altre realtà (si pensi ad esempio alle vicine Toscana e Marche). In particolare, l’export umbro verso l’area del conflitto pesa circa per lo 0,7% del Pil regionale. 

L’Umbria, dunque, se nelle fasi espansive non riesce a beneficiare appieno del potere propulsivo della domanda estera (ricordiamo che la domanda estera è l’unica componente che ha tamponato l’economia italiana negli anni successivi alla grande crisi finanziaria), da questo punto di vista presenta una vulnerabilità più bassa della media. In sintesi, un punto di debolezza può rivelarsi in questo caso un punto di (relativa) forza. 

Le potenzialità del PNRR
In questo scenario di difficoltà si inserisce la potente iniezione di risorse del PNRR che dovranno essere spese nei prossimi anni intervenendo a contrastare, con un moltiplicatore auspicabilmente elevato, le prepotenti forze che, al momento, stanno agendo in senso contrario. 

Il PNRR, oltre che una grande opportunità per il potenziamento strutturale del nostro territorio, è prima di tutto una importante boccata di ossigeno per sostenere una domanda interna (quella delle famiglie) prevista in rallentamento. Se gli effetti più importanti e duraturi si potranno apprezzare nel medio-lungo periodo, è nell’immediato che avremmo bisogno che tali investimenti svolgano la loro funzione di sostegno economico innescando il tipico effetto keynesiano di impulso e crescita. 

Sotto questo aspetto va però ricordato l’effetto dispersivo dei benefici generati da una iniezione di investimenti, che dipende dai caratteri propri del modello umbro relativi alle relazioni intersettoriali interne e con il resto d’Italia. Queste caratteristiche rendono limitato l’impulso sul sistema generato dalla spesa per investimenti, perché di buona parte degli effetti generati finiscono per beneficiare le altre regioni (come accade sovente nei sistemi di piccole dimensioni). Tuttavia, anche in presenza di questi fenomeni che potrebbero attenuare gli effetti propulsivi di una spesa per investimenti in Umbria derivanti dalle risorse PNRR, il potere di sostenere già dall’immediato la ripresa economica sarà sicuramente molto importante.

L’impatto economico della crisi bellica
Una contrazione della domanda dei beni esportati nell’area russo-ucraina (principalmente abbigliamento e prodotti agricoli) oltre ad avere un impatto diretto sulla produzione di questi prodotti innescherà un effetto a catena, poiché queste produzioni mostrano una particolare interrelazione con le altre attività produttive e contribuiscono in maniera rilevante alla generazione di reddito da lavoro e da profitti, incidendo alla fine sul reddito disponibile delle Famiglie e sulla capacità di spesa di Società e Pubblica Amministrazione. D’altro canto, il rincaro dei prezzi di petrolio e gas importati si sta riversando sia sulla produzione (provocando un incremento dei costi) sia sulla domanda per consumi finali delle Famiglie per una ridotta capacità di spesa. Il conflitto in corso, in altri termini, genererà una correzione della variazione del PIL dovuta sia alla minore domanda estera, sia alla minore domanda nazionale, sia anche alla riduzione dei consumi interni alla regione Umbria.   

Una simulazione degli effetti del conflitto in corso attraverso un modello di equilibrio economico generale computabile (CGE) basato sulla matrice contabilità sociale (SAM) costruita per la regione Umbria a febbraio 2022 (cfr. Signorelli, Socci et al.) stima che l’impatto dello shock composto domanda e offerta costerà al sistema Umbria almeno lo 0,7% in termini di minore PIL annuo.

Il commercio estero
La ripresa del commercio mondiale dopo l’anno dello scoppio della pandemia ha interessato anche la nostra regione, che ha visto una ripresa dal 2020 al 2021 sia dell’export (+23,4%) che dell’import (+39,4%).

Le conseguenze del conflitto Russia-Ucraina sul commercio internazionale dell’Umbria sono rilevanti non tanto per il peso sul totale degli scambi con i paesi coinvolti nel conflitto, piuttosto per la dipendenza dalle materie prime e semilavorati provenienti da quel mercato. Seppure il commercio dell’Umbria con Russia, Ucraina e Bielorussia (area RUB) sia piuttosto contenuto, la regione figura relativamente più specializzata verso questa area rispetto all’Italia: l’Umbria contribuisce infatti al fatturato italiano realizzato con l’area RUB per l’1,4% (a fronte dello 0,9% considerando gli scambi mondiali), per un ammontare che nel 2021 ha superato i 144 milioni di euro. 

L’86% di questa cifra è stato speso da Russia (soprattutto) e Bielorussia per beni relativi ai prodotti dell’agricoltura e della manifattura: in riferimento a questi due settori, l’Umbria realizza in quell’area rispettivamente il 4,3% e il 3,1% del proprio fatturato all’estero. Dal punto di vista territoriale, l’export proviene quasi del tutto dalle imprese della moda e delle macchine dell’area perugina, mentre la parte prevalente dei beni importati è destinata alle produzioni siderurgiche del ternano.

L’Umbria acquista invece da Russia, Bielorussia e soprattutto Ucraina oltre 57 milioni di euro di merci. Per il 95% si tratta di prodotti manifatturieri, e costituiscono l’1,9% delle merci che questo settore importa complessivamente dal mondo. 

La ripresa del lavoro
Il mercato del lavoro, già a partire dal secondo semestre 2020, si è riattivato, tornando a esprimere manifestazioni fisiologiche dopo i fenomeni apparentemente contrastanti occorsi durante il lockdown (crollo dell’occupazione ma anche diminuzione della disoccupazione).

Il 2021 è stato per l’Umbria un anno di crescita degli occupati che, stabilizzatisi nel secondo semestre, a fine anno hanno toccato quota 356.600. In media, si sono contate 6 mila unità in più rispetto all’anno precedente, per un tasso di crescita (1,7%) superiore a quello italiano (0,8%) e a quelli del Nord (0,6%) e del Centro (0,4%), dopo un 2020 segnato – peraltro – da una più contenuta emorragia nella regione rispetto alle aree di riferimento. 

La ripresa del mercato del lavoro c’è dunque stata, in Umbria più che altrove. Il riassorbimento degli occupati è avvenuto per lo più con contratti a tempo determinato, in Umbria come in Italia, quale frutto della comprensibile cautela degli operatori. Complessivamente, nel 2021 in Umbria sono stati creati quasi 6.500 posti di lavoro, il 55% dei quali rappresentati da tempi determinati (57% in Italia). Il numero degli occupati dipendenti in Umbria nel 2021 (268,6 mila) ha interamente recuperato, fino a superarlo, il dato del 2019 (267,7 mila).

Rispetto al quadro nazionale, nel 2021 l’occupazione in Umbria è cresciuta molto di più nell’industria e nelle costruzioni, mentre è calata in misura molto più marcata nell’agricoltura. Ancora in sofferenza invece l’occupazione nel terziario, soprattutto nei comparti legati al turismo, anche se è nel resto dei servizi che l’Umbria sconta una performance comparativamente peggiore di quella italiana.

Continuano a calare in Umbria le persone in cerca di lavoro: a fine 2021 i disoccupati erano 22 mila, per una media annua di 25 mila unità, praticamente 6.400 in meno rispetto all’anno precedente. Diminuiscono contestualmente anche le forze di lavoro potenziali (-7,6% su base annua), altrimenti definite “inattivi disponibili o attivi non disponibili a lavorare”: si tratta in sostanza di persone scoraggiate, che hanno interrotto la ricerca attiva di un lavoro o momentaneamente impossibilitate a lavorare. Crescono tuttavia le difficoltà dei laureati sul mercato del lavoro umbro: la percentuale di disoccupati con titolo di studio terziario nel 2021 ha superato il 21%, il dato più elevato tra tutte le regioni.

Provando a fotografare l’Umbria al 2021 rispetto alla situazione pre pandemica (2019) attraverso gli aggregati più significativi, si osservano: 4 mila occupati in meno, 8 mila disoccupati in meno, oltre 4 mila potenziali forze di lavoro in più. Ciò, nonostante la contestuale perdita demografica di oltre 7 mila persone in età lavorativa (-1,3%, come Italia e Centro ma doppio rispetto al Nord), quale esito della trasformazione dovuta soprattutto al calo delle nascite, che erode progressivamente le coorti deputate a garantire con il proprio lavoro il sostegno all’intera collettività. 

Sotto un’ottica di genere, contrariamente a quanto occorso a livello nazionale e nel centro-nord, in Umbria la risalita dell’occupazione nel 2021 ha coinvolto più gli uomini che le donne (+2,0% e +1,3% rispettivamente). In generale, sembra prefigurarsi un atteggiamento attendista nei confronti del lavoro per il mercato, probabilmente generato dalla necessità di assestamento dei ritmi familiari di cui soprattutto le donne hanno risentito oltreché da un perdurante scoraggiamento derivante dalla consapevolezza che ogni fuoriuscita dal mercato del lavoro espone le donne, più degli uomini, a una più difficile ricollocazione. 

Il nesso tra una consistente porzione di forze di lavoro potenziali e una bassa quota di persone in cerca di occupazione può essere almeno in parte ricondotto alla presenza di misure di sostegno che non sembrano essere ancora riuscite a dispiegare la loro funzione di politica attiva.

Dunque, il lavoro è finalmente ripartito, ma il riadattamento delle persone – come degli stessi operatori – a una nuova normalità sembra essere un processo più lento e più complicato, oltreché più complesso, e gli sviluppi delle vicende geopolitiche dell’oggi non stanno certo agevolando questo cammino.

Nel 2021 le dimissioni dal lavoro in Umbria, che costituiscono quasi un terzo delle cessazioni totali, sono infatti aumentate rispetto al 2019 del 20% (12% in Italia). Dunque, gli abbandoni volontari del lavoro continuano a salire, e nella regione a ritmi superiori al resto del Paese.
Il fenomeno, isolando i soli tempi indeterminati, acquista una valenza ancora più importante: nel 2021 le dimissioni in Umbria hanno finito per costituire il 73% delle cessazioni (il 69% in Italia), con una crescita rispetto al 2019 pari al 18% (12% in Italia).  

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