Una delle attività ormai scomparse e che si è sviluppata anche nel nostro territorio fin dalla notte dei tempi è stata la produzione del carbone da legna. Essendovi in molte zone dell’Umbria ampie disponibilità di boschi, nei secoli scorsi, in molti si dedicavano alla realizzazione in loco di questo importante combustibile che fino almeno agli anni Cinquanta, ha accompagnato l’esistenza di intere generazioni soprattutto per le necessità domestiche ma anche per rifornire attività industriali e artigianali.
Vista la richiesta di carbone che veniva soprattutto dalle città, fare il carbone diventò un mestiere o, se vogliamo, una vera e propria arte e, per questo, nacquero le figure dei carbonai. Oggi in Italia questa antica tradizione viene custodita attraverso l’impegno di alcune istituzioni culturali che ne salvaguardano la memoria. Testimonianze ve ne sono, ad esempio, nelle Marche, in Sardegna, in Toscana, in Campania e in Calabria. In Umbria la cultura del carbone viene celebrata in una frazione di Perugia, a Fratticiola Selvatica, grazie alla “Sagra del Carbonaio” e al lavoro di ricerca e divulgazione portata avanti dall’Ecomuseo del Tevere.
L’attività veniva svolta in mezzo ai boschi dove i carbonai soggiornavano per lunghi mesi, dall’inverno all’autunno, in umili capanne, come eremiti, senza rientrare a casa o in paese, sempre esposti a pioggia, freddo, vento e… fumo delle carbonaie. Spesso portavano con loro anche le mogli, i figli e alcuni animali da cortile quali polli, galline e maiali. Di solito veniva allestito anche un forno nelle vicinanze e veniva a crearsi così una sorta di vita in comunità. L’alimentazione era abbastanza povera e incentrata sul consumo di polenta, pane, pasta, pancetta, cacio, uova, legumi, funghi, ecc. Si pensa che l’invenzione della pasta alla “carbonara” si debba proprio a queste persone. A Todi, secondo l’Annuario del 1927, vi erano due ditte esercenti l’attività del carbone: Pietro Menichini e Vittorio Polacco.
La prima operazione che veniva eseguita era quella del taglio manuale delle piante di cerro, quercia, carpine, ornello e leccio cioè di quei legni maggiormente ricchi di calorie. I tronchi, lunghi circa un metro, venivano poi trasportati a dorso d’asino, di mulo o a spalla in una radura o spiazzo (rintracciabili ancora oggi all’interno di qualche bosco) per poi essere disposti in cerchi concentrici e sovrapposti formando una catasta ben stipata di forma conica. Queste cataste erano larghe circa sei metri di diametro e alte fino a due metri e mezzo e potevano contenere diversi quintali di legname. In cima veniva lasciato un foro che doveva fungere da camino.
Poi il tutto, attraverso un piccolo capolavoro di tecnica e antica sapienza, veniva ricoperto di terra, polvere di carbone, paglia, zolle erbose, ecc. Quindi, attraverso l’introduzione delle braci, veniva appiccato il fuoco da sotto e ricoperto il foro alla sommità con una lastra in modo che tutto potesse bruciare lentamente e senza ossigeno. Per una carbonaia di 100 quintali occorrevano circa 8 quintali di legna per la sua alimentazione.
Il calore liberato dalle legna che bruciava al centro della cosiddetta “cotta” serviva per la carbonizzazione della legna che non doveva bruciare, bensì cuocere. Si lasciava che solo un filo d’aria potesse penetrare attraverso degli “sfiatatoi” praticati sui fianchi della cotta con un palo di legno appuntito. Chiudendo o aprendo gli sfiatatoi, si regolava una combustione lenta e graduale, sostenuta da un’ossigenazione contenuta e calibrata, sì da permettere alla legna di bruciare ad alta temperatura, senza fiamma, per non diventare cenere. La “cotta” del carbone era un processo di carbonizzazione che per le carbonaie di piccole dimensioni poteva durare pochi giorni, mentre per quelle più grandi serviva anche un’intera settimana o più. Il tutto doveva essere continuamente sorvegliato a turno dai carbonai sia di giorno che di notte.
L’arte e la bravura del carbonaio si manifestavano nel saper interpretare il colore del fumo che usciva, il trasudamento della legna e il soffio del tiraggio: da questi elementi stabilivano se era necessario aumentare o diminuire l’ossigenazione aprendo o chiudendo nuovi sfiatatoi. Una combustione non corretta poteva impedire che la legna si trasformasse in carbone, diventando cenere.
Grazie a questa ingegnosa operazione, pian piano, il materiale legnoso originario si riduceva alla metà del volume ed a circa un quinto del suo peso iniziale con evidenti vantaggi per essere trasportato e adoperato anche in luoghi lontani.
Quando il carbone si era raffreddato si procedeva ad insaccarlo e, poi, attraverso i carrettieri, a trasportarlo verso la pianura e le città per essere venduto.
Una volte terminato il lavoro, i carbonai, dopo mesi di duro lavoro, tornavano a casa o partivano verso altri luoghi di lavoro. Prima di allontanarsi, però, provvedevano a smontare la capanna in modo da recuperare il legname adoperato lasciando il terreno pulito, i sentieri ordinati e transitabili come un giardino: anche i più piccoli frammenti di carbone o carbonella rimasti dopo l’insaccamento venivano recuperati. Rimanevano solo le macchie nere delle piazzole a testimonianza delle “cotte”. I boschi e le montagne si svuotavano (ma solo momentaneamente) di quegli abitanti discreti e operosi e si tornava alla quiete abituale e ai lenti ritmi di sempre in attesa che ricominciasse la nuova stagione.