Non avevamo dubbi sulla collocazione iperliberista del Partito Democratico, in ogni sua articolazione territoriale. Pertanto non ci stupisce la posizione assunta sulla vertenza Stadio – Clinica convenzionata di Terni. In una nota, stringata ma densa di significati e acrobazie, il Partito regionale esordisce con un significativo “siamo sempre stati favorevoli alla realizzazione del nuovo stadio e della clinica di Terni, un progetto importante e strategico…”. Una dichiarazione che stride con la campagna elettorale improntata alla salvaguardia della Sanità Pubblica come obiettivo primario per il rilancio di una Regione al collasso strutturale. Dopo le promesse di risanamento delle Aziende Sanitarie e di quelle Ospedaliere, dopo aver fantasticato di centinaia di assunzioni e di un Piano Socio Sanitario innovativo ed imminente, ci troviamo di fronte al solito Partito prono ai predatòri interessi privati, che ha portato la sanità umbra, in combutta e continuità col vituperato (a parole) centrodestra, dall’essere Regione benchmark e riferimento nazionale, alla passività nella mobilità sanitaria e alla fuga di professionisti verso il settore privato o verso il pubblico, più efficiente, di altre regioni.
La subalternità al progetto populista e speculativo tramite il quale Bandecchi ha costruito la sua campagna elettorale, ci racconta dell’incapacità dei quadri e degli eletti (spesso direttamente sovrapponibili) di discostarsi dalla deriva conservatrice che affligge dalla nascita il Partito democratico. Il riequilibrio territoriale che si chiede dagli ambienti padronali ternani è in realtà un processo di privatizzazione scriteriato della sanità pubblica che affianca, al fiorire di decine di cliniche e strutture riabilitative sul territorio, lo smantellamento delle strutture pubbliche, dei centri di salute, dei laboratori e dei nosocomi regionali mediante la riduzione programmata delle risorse. Si tratta di un processo di spostamento massiccio dei fondi pubblici verso la sanità privata, che ne ingrassa i profitti a spese di intere categorie di cittadini messi di fronte alla scelta di curarsi a pagamento o rinunciare alle cure, e che si nutre di liste di attesa interminabili, prese in carico senza sbocco e ricorso sistematico al contributo, lautamente pagato, del privato per risolvere un problema creato ad arte.
Servirebbero corpose assunzioni di specialisti, personale sanitario e tecnico amministrativo per rilanciare le strutture pubbliche, ma ciò non si sta facendo neanche a fronte della sostituzione del personale che va in pensione e di coloro che, legittimamente, spaventati dalla prospettiva di salari che si mantengono su livelli risibili (anche grazie alla firma proditoria dell’ultimo, misero, CCNL scaduto da parte dei soliti noti), migrano verso altre aziende. Chi rimane a lavorare nelle strutture si vede costretto a doppi turni, ad accumulare ferie non godute e ad essere esposto alla collera degli utenti, che si trovano di fronte a servizi rimaneggiati e visite inevase, posti letto tagliati e servizi ridotti all’osso. Non abbiamo bisogno del padrone di turno che scarica il proprio rischio d’impresa sulle spalle di contribuenti, per giunta a clinica non ancora avviata: è l’ora di tagliare pesantemente le convenzioni con i privati ed utilizzare quei fondi per assumere specialisti e stabilizzare il personale del comparto. È l’ora di dare spessore alle Case di Comunità, evitando di creare le solite scatole vuote, ad uso e consumo dei tagliatori di nastri. Si investa in personale, strumentazione e ricerca e la nostra sanità pubblica tornerà ad avere la dignità che i ” democratici ” di turno hanno svenduto al peggior offerente.








