“Ripercorrere la storia del diabete significa leggere non solo la storia della medicina antica e contemporanea, ma anche della stessa società” questo ci dice Alberto Falorni ricercatore e docente di Medicina Interna dell’Università di Perugia, coordinatore per l’Umbria della Società Italiana di Endocrinologia ed esperto di diabete di tipo 1.
Lo incontriamo di prima mattina nel suo laboratorio. Indossa il camice bianco ed è al lavoro già da qualche ora. “Il diabete – esordisce – è una delle patologie più diffuse nel mondo. Nei paesi avanzati, e soprattutto nei paesi che da poco hanno cambiato le loro abitudini alimentari, il numero di casi aumenta continuamente. L’Umbria stessa non è esente da questo fenomeno”.
I numeri di questa patologia sono da capogiro. Nel mondo i malati di diabete mellito ammontano a circa 200 milioni ed oltre 20 milioni sono affetti da diabete di tipo 1. I dati epidemiologici rivelano un incremento di nuovi casi entro il primo anno di vita e nella fascia di età tra i 20 e 30 anni. I malati di diabete tipo 1 aumentano al veloce ritmo del 3.5% ogni anno e gli esperti stimano un raddoppio del numero dei pazienti nel 2030.
Che cosa è il diabete di tipo 1? E quali sono i sintomi? “E’ la conseguenza di una distruzione, per cause immunitarie, delle cellule del pancreas che producono insulina. Se non trattata con insulina, questa patologia è incompatibile con la vita e si manifesta prevalentemente in età giovanile. I soggetti affetti sono obbligati ad una terapia quotidiana con iniezioni di insulina, per sopperire alla mancanza di questo fondamentale ormone. I sintomi iniziali comprendono aumento della quantità di urine emesse nelle 24 ore, incremento del senso della sete e dell’introduzione di liquidi, esaltazione dell’appetito e dell’assunzione di alimenti, che però non si accompagna ad un accrescimento di peso, ma al contrario, a un dimagramento repentino.”
Quali sono i dati per l’Umbria? “ Negli anni 70 nei soggetti tra gli 0 e i 15 anni di età i nuovi casi si attestavano intorno a 7 ogni 100.000. I dati dal 1990 al 2000 rivelano un incremento netto con 13 nuovi casi ogni 100.000. Per un totale di circa 2000 diabetici di tipo 1 nella sola Umbria”.
Quali sono le cause che portano al diabete? “Le cause sono per un 50% di natura genetica e per un 50% di natura “ambientale”. Per quanto riguarda il fattore genetico esiste una predisposizione familiare molto forte. Basti pensare che il gemello di un soggetto con diabete di tipo 1 ha una probabilità di sviluppare la malattia intorno al 40%. Inoltre, i genitori hanno il 10% di probabilità di “passare” la malattia ad un figlio. Dal 2002 al 2006, nell’ambito del progetto nazionale “Prevefin Italia”, abbiamo studiato ed analizzato un campione di circa 2500 neonati tra Foligno e Spoleto, in collaborazione con l’equipe del Prof. Giuseppe Castellucci, alla ricerca di quei marcatori genetici che indicano una probabile futura comparsa di diabete tipo 1. Venti neonati sono stati classificati come ad alto rischio per il loro bagaglio genetico e sono tuttora sotto osservazione.”
E’ possibile prevenire lo sviluppo della malattia? “Non esistono ad oggi vere terapie di “prevenzione” del diabete di tipo 1, ma ci sono studi in fase avanzata che stanno testando delle terapie nuove. Si sta studiando una sorta di “vaccino”. Il più sviluppato al momento è quello che sta portando avanti una ditta farmaceutica svedese che sfrutta la proteina Gad, la stessa che innesca il meccanismo immunitario di distruzione del pancreas, una sorta appunto di “vaccino”.
E invece cosa si intende per componente ambientale? “Nella componente “ambientale” rientrano infezioni virali, alimentazione dei primi mesi di vita e anche potenziale contatto con sostanze tossiche. Un nuovo studio euro-americano denominato Teddy sta studiando migliaia di bambini a rischio per lo sviluppo di diabete di tipo 1 per identificare i fattori ambientali importanti. Quello che è sicuro che c’è una tendenza da parte di chi vive al nord del mondo a sviluppare più questa patologia rispetto a chi vive in zone mediterranee”.
La dieta corretta e l’esercizio fisico diventano un’ arma fondamentale per chi soffre di questa patologia. E vero? “I rischi maggiori di elevati livelli di glicemia nel sangue sono a carico dei nervi, dei reni, del cuore e dell’occhio. Queste sono le principali complicanze e da queste derivano poi i costi maggiori per la sanità pubblica. Basti pensare che in Umbria un soggetto con diabete costa mediamente al sistema sanitario circa 2500 euro all’anno. Una corretta alimentazione è fondamentale per ritardare o abbassare il rischio di queste complicanze: ben vengano i carboidrati ma vanno scelti: evitare zucchero e miele, ben vengano pane e pasta in quantità, però, controllate. L’esercizio fisico lo dovrebbero fare tutti, figuriamoci una persona con diabete…”.
Quali sono gli ultimi progressi scientifici per migliorare la qualità di vita del paziente? “Le nuove insuline, sempre più mirate alle esigenze dei pazienti sono sempre più sofisticate. Inoltre la crescente diffusione degli infusori portatili di insulina permette una sempre migliore riproduzione del rilascio fisiologico di insulina. Tuttavia questi apparecchi sono idonei solo per certi pazienti e richiedono molta cautela ed esperienza”.
Quale è invece la situazione per i trapianti di Pancreas? “Le vie attualmente percorribili sono due: o il trapianto totale dell’organo o il trapianto di delle cellule che producono insulina. Questa seconda tipologia necessita l’isolamento delle cellule dai pancreas di più donatori e pone il problema della funzione a lungo termine del trapianto. Queste cellule vivono relativamente poco nel trapiantato: circa un anno e mezzo. In questo periodo si riesce a ridurre la quantità di insulina da iniettare o addirittura si arriva alla sospensione. Ma dopo si è al punto di partenza. In ogni caso i trapianti richiedono una terapia immunosoppressiva per evitare il rigetto e sono quindi indicati solo per una minima percentuale di pazienti” .
Lei tocca con mano la situazione della ricerca scientifica in Italia, cosa ne pensa ? “C’è un problema a livello di tagli nazionali, i finanziamenti ministeriali sono sempre più ridotti e inferiori rispetto alle altre nazioni europee. Per un progetto di ricerca finanziato dal mistero si deve pagare l’iva al 20% come se si facessero acquisti normali. Fare ricerca in Italia diventa sempre più difficile”.